Goodbye, Columbus
- Autore: Philip Roth
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2012
Philip Roth è uno scrittore che ha nella produzione narrativa molte trilogie interpretate spesso da uno dei suoi alter ego, perciò il lettore che si approccia a leggerlo per la prima volta può trovare complicato scegliere un libro che non sia legato, temporalmente e in ordine cronologico a un altro.
Per questa ragione, Goodbye, Columbus (Einaudi, 2012, trad. di Vincenzo Mantovani), che fra l’altro ci propone un Roth in veste non di romanziere, trattandosi di una raccolta di racconti, può essere una ottima scelta come primo contatto di lettura con l’autore.
Il libro è l’esordio della sua carriera. Pubblicato nel 1959, fu subito premiato con il National Book Award nel 1960 e in Italia è edito da Einaudi.
La raccolta è composta da un romanzo breve che apre, omonimo, l’opera e a cui si aggiungono cinque racconti, quasi tutti legati da un filo conduttore che tratta per lo più di religione, nel caso di Roth, l’ebraismo.
La particolarità che chi legge e conosce la scrittura di Philip Roth può notare di questo libro è la presenza di tutte le tematiche che diventeranno, in seguito, capisaldi nella sua letteratura e che, malgrado si parli di un esordio, compaiono in forma pressoché compiuta.
Stesso dicasi per lo stile, la voce, lo sguardo dall’autore che si rivelano già maturi, scevri da drastiche revisioni future. Goodbye Columbus, malgrado non sia tra le sue opere più citate, ci fa conoscere un Roth perfettamente riconoscibile; con la sua scrittura asciutta, minimale, mirata, così da essere più tagliente e incisiva nel sottolineare le tematiche veicolate.
In particolare, la base ironica, irriverente e critica nei confronti dell’ebraismo gli valse, proprio a partire da queste pagine, l’accusa di antisemitismo che poi seguì tutta la sua produzione, pur essendo lui stesso ebreo.
Il suo irridere alle debolezze e alle intransigenze delle regole religiose dei praticanti al centro della maggior parte dei racconti del libro è trattata con lucido distacco; un’operazione ardita quando si critica “da dentro”, quando si deve venire a patti con un’appartenenza a qualcosa che dimostra il pregio e la grandezza di Roth, pacificamente riconosciuti, e che caratterizza la lettura di questa sua prima prova di scrittore.
Goodbye, Columbus è, per queste ragioni, un romanzo breve molto interessante sotto diversi punti di vista.
La storia rivela e svela un’America dell’epoca presa da lotte di classe, da ebrei che dimenticano le loro origini per fare una vita borghese e il più americana possibile, e l’amore, confuso spesso e volentieri con la sessualità (cosa di cui l’autore parla apertamente proprio in un passo del libro come un errore che ha portato alla sopravvalutazione del sentimento stesso), che, seppur emozione umana primaria, difficilmente riesce a comporre la cesura della differenza di classe, specie se, in quegli anni (i meravigliosi Sessanta), questa differenza era squilibrata, in difetto, verso la parte maschile della coppia.
Neil Klugman, il protagonista, è infatti un ebreo di umili origini che ancora vive a Newark, ha un lavoro come impiegato pubblico e convive con l’anziana zia, mentre Brenda Patimkin è figlia di una ricca famiglia di imprenditori di sanitari e lavandini che ha fatto fortuna, permettendole di trasferirsi nei quartieri alti di Short Hills.
La differenza di classe nel rapporto è un ostacolo che Neil avvertirà per tutto il rapporto e che, per questo motivo, non riuscirà ad evolversi dalla semplice “storiella estiva” a scopo erotico e nonostante la famiglia di Brenda finga di trattarlo in modo accogliente e democratico. A prevalere saranno le troppe differenze tra un semplice bibliotecario e una futura universitaria di Harvard che, già all’epoca, si era rivolta alle mani di un chirurgo estetico per ottenere un naso più proporzionato sia al viso, sia alla nuova vita, mimetizzando caratteri di razza e classe sociale. Un’attenzione per l’ “apparenza” che suona come un compromesso ipocrita agli occhi di Neil fin dall’inizio della loro relazione.
In un crescendo caustico di sarcasmo e spiacevoli considerazioni sulla compagine famigliare di Brenda, la storia tra i due finisce per un qui pro quo legato a un altro dei temi allora fondamentali in America: la vicinissima rivoluzione sessuale.
Un evento, in particolare (che come sempre lasciamo al piacere della lettura), apparentemente innocuo e insignificante, rimette in discussione tutti i parametri della storia e dei rapporti famigliari di Brenda che, inevitabilmente, faranno della relazione con Neil il capro espiatorio, dando la stura ai due per porre fine al rapporto già claudicante.
Non molto diverso è il tenore degli altri racconti presenti nel libro, che tuttavia conservano ciascuno una propria autonomia e non soffrono peccati di ripetizione nella struttura e nell’evoluzione, altro pregio del libro (Difensore della Fede; La Conversione degli Ebrei; Non si può giudicare un uomo dalla canzone che canta; Epstein; Eli, il fanatico). Quasi tutti imperniati sul tema religioso e sugli atteggiamenti intransigenti degli ebrei con tono critico e derisorio. Roth passa al setaccio caratteristiche e debolezze degli ebrei praticanti. Mette in luce le ristrettezze di un confronto tra ebraismo e americanismo, facendo uscire perdente l’immagine ebraica. I suoi personaggi sono tutti alle prese con una scelta fondamentale: essere ottimi americani o ottimi ebrei; cose che, secondo la visione rothiana, sembrano essere inconciliabili.
Ciascun personaggio e le tutte le storie sono declinati con un sense of humor incalzante. Roth li fa vivere in scene e immagini esilaranti, al limite del ridicolo.
Racconti che rivelano un Roth che, a soli ventisei anni, era già un autore molto colto, padrone delle proprie idee, sempre fuori dal coro, e soprattutto avanti anni luce rispetto alla società; basti pensare ai continui riferimenti alla psicanalisi, sicuramente una novità rispetto al trend a lui coevo, anche perché sono maneggiati dallo scrittore con mordacità da cui traspare tutto il biasimo per l’ipocrisia Occidentale sul tema.
Tutta l’impostazione Goodbye, Columbus è tesa a manifestare le aporie del contesto sociale in cui è ambientato il libro, e a enfatizzare la critica al conformismo che permeava ogni manifestazione religiosa e sociale di quegli anni negli ambienti dell’America ebraica.
A questo proposito, uno dei personaggi più riusciti e plastici della raccolta è la zia Gladys, in Goodbye, Columbus, alla quale Roth affida il compito di evidenziare proprio gli atteggiamenti aridi e prevenuti di cui si fa censore con le sue opere e alla quale si devono fragorose risate durante la lettura.
Si può ben dire che Goodbye , Columbus è a torto considerato un’opera minore, perché non è solo un valido approccio alla narrativa di Philip Roth, ma è anche una freccia che fa scattare nel lettore un duraturo colpo di fulmine per il grande autore americano.
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"Addio, Columbus e cinque racconti" (Bompiani, 1960) racchiude in realtà diversi racconti, scritti dall’autore all’inizio della propria carriera, verso la fine degli anni cinquanta del secolo scorso.
In effetti questa è la sua opera prima e ha vinto diversi premi che hanno contribuito a consacrarne il mito.
Sei storie che saranno scritte con parole semplici ma efficaci, vicende quotidiane che proprio per la loro semplicità non faticheranno ad attecchire in noi.
Storie di vita vissuta, pensieri e desideri, capovolgimenti di fronte inaspettati che porteranno noi e i protagonisti verso l’unico epilogo logico. Anche se forse non era quello che ci aspettavamo. E magari neanche il meno doloroso.
Una raccolta vecchia, appunto, di decenni, storie che però non hanno perduto un briciolo della loro freschezza e, anzi, hanno ancora qualcosa da dire in quella che noi chiamiamo società moderna.
Ma siamo così differenti dalle persone racchiuse in queste pagine?
Philip Roth non ha certo bisogno di presentazioni.
Con queste pagine ci dona parole semplici eppure non scontate, pagine colme di persone che si apriranno dinanzi al nostro sguardo, inondando le nostre giornate con sentimenti contrastanti.
E noi lì, spettatori curiosi di assaporare quelle vicende che sanno tanto di quotidiano ma che per noi saranno un po’ come una piacevole alternativa alle nostre giornate.
Un’alternativa che non cerca facili spettacolarizzazioni e che, anzi, si lascerà vivere appieno senza tanti preamboli.
Un libro che è già un classico, parole destinate a chiunque voglia immergersi in un’atmosfera differente da quella che conosce eppure così simile alla nostra.
Da leggere in un solo, prelibato boccone o da gustare poco alla volta, magari una storia al giorno.
Comunque storie che entreranno in noi con disarmante facilità e non se ne andranno più.