Il diavolo indiano
- Autore: Marco Vaccher
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2019
Uscire dalla Comancheria non è da tutti. Uscire dalla frontiera non è da tutti. Jamie, il frate apache che Marco Vaccher ci regala nel suo romanzo d’esordio Il diavolo indiano (Casta editore, 2019), vive a metà tra il suo nuovo status religioso e l’universo indiano - termine fin troppo generico - che lo chiama, lo seduce e lo isola: per una sua missione più alta conduce una spedizione quasi suicida nel territorio dei terribili Comanche. Senza spoilerare, mi limito a dire che Jamie, che in fin dei conti dalla vita potrebbe anche non volere altro, entra in una dimensione di incontro più alta: più alta possibile, più profonda possibile, forse perfino con Dio, se esiste un concetto di Dio nella Comancheria. Ed esiste.
Il diavolo indiano racconta mondi che muoiono: quello degli Apache; quello dei Comanche che ancora si battono e dibattono, costretti a furiose scorrerie sanguinarie, quello della frontiera selvaggia con il Messico; perfino quello dei bianchi avventurieri che conquistano terreni inesplorati con nemici furiosi e senza volto. Significativo che l’unico tratto in comune tra tutti i personaggi sia una violenza sorda, cieca, spesso irrefrenabile. A scorrere è il sangue della frontiera, dell’incomprensione, dell’assoluta volontà di non comprendersi e non fidarsi. Non c’è fede che tenga, che esista: solo tradimenti, morte veloce nella migliore delle ipotesi.
Inizialmente l’autore lascia il lettore solo al sole, a rimestare nei sassi e nelle calure assolute e assolate del Texas; poi all’improvviso chiarisce e spiega. Alla fine forse non contano davvero gli obiettivi, le cause, il nostro modo di pensare occidentale, quasi da manager d’accatto. Per qualcuno, per frate Jaime, conta qualcosa di più, di più profondo, di più intimo, di più umano.
Quando si lascia il romanzo d’esordio di Vaccher si prova senso di colpa: la sensazione di aver abbandonato al proprio destino una terra di mezzo, a metà tra dominio spagnolo e nascita degli Stati Uniti, a metà tra America e Messico, a metà tra indiani sottomessi e irriducibili Comanche. A metà tra voglia di lasciare un luogo inospitale e la passione sfrenata che porta a tornarci, in una lunga caccia. Viene voglia di bere alla stessa fonte dell’autore.
Di sottofondo l’eterno tema del razzismo, della diffidenza verso l’altro, il diverso, striscia nel mondo soffocante e duro costruito dall’autore.
Non c’è spazio per eroi, eppure gli eroi alla fine ci sono; non c’è spazio per eroismo che non sia sopravvivenza, eppure brilla qualcosa di incredibile tra quelle sabbie, quelle pietre, quei volti di piombo e violenza. Viene da dire: brilla Dio tra quelle pietre. Non un dio da frontiera, ma un dio di incontro, un dio che si fa trovare dove nessun altro può. Per questo uscire dalla Comancheria, terminata l’ultima pagina, è un atto di fede: viene voglia di rientrarci e viene voglia di godersi la sopravvivenza e viene voglia di farsi confessare, nell’ultima notte, da un frate indiano, un tempo terrore degli spagnoli. Viene voglia di rivoltargli l’anima addosso, come Jaime sa fare con il lettore.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il diavolo indiano
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