Il folklore di Villabate. Usi costumi e tradizioni di un tempo
- Autore: Giuseppina Giangreco
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Giovanni Dino è il curatore della pubblicazione della tesi di laurea di Giuseppina Giangreco che, discussa nell’anno accademico 1965-1966, ebbe come relatore il prof. Giuseppe Bonomo, illustre studioso di tradizioni popolari. Il prezioso volume, avente titolo quello dato dalla ricercatrice al suo lavoro, cioè "Il folklore di Villabate", ha anche un sottotitolo che anticipa specificazioni gli argomenti trattati: "usi costumi e tradizioni di un tempo" (Edizione dell’Autrice, 2018).
Siamo nell’ambito della demopsicologia, volendo utilizzare la felice espressione coniata dal medico palermitano Giuseppe Pitrè che ne fu il padre fondatore; nel suo costituirsi la Sicilia, ha scritto Giuseppe Cocchiara, la Sicilia si affiancò con l’Europa, e non soltanto con essa: il nuovo umanesimo da un lato
“si proponeva di salvare tutto un patrimonio artistico, narrativo e figurativo, a cui fino allora nessuno aveva fatto attenzione, dall’altro voleva darci una visione più completa della storia dell’Isola. I canti, le novelle, le leggende popolari, gli usi, i costumi e le credenze venivano chiamati così a illustrare la storia dei dominati, i quali avevano portato anch’essi il loro contributo alle vicende della Sicilia".
Nell’opera in esame il campo d’indagine ha un luogo ben preciso: Villabate, cittadina a pochi chilometri da Palermo, i cui aspetti topografici, socio-storici e antropologici con ricchezza di dati sono evidenziati nel capitolo introduttivo appunto intitolato "Origine, storia e condizioni sociali del comune di Villabate". Leggendolo, la fisionomia che subito risalta è quella delle concessioni enfiteutiche a partire dalla seconda metà del Settecento. Ma si deve soprattutto all’aristocratica società palermitana che vi scelse di soggiornare come villeggiatura a incidere sull’evoluzione demografica, urbanistica e infrastrutturale del paesino. Agricoltori, marinai e commercianti furono i suoi abitanti tenaci custodi della propria, singolare identità trasmessa di generazione in generazione. Accastondoci alla ricerca demologica portata avanti dalla Giangreco, balza evidente la dicotomia la tra brevità storica del paese e la ricchezza di tradizioni affidate all’oralità vernacolare. L’opera, che si presenta come un aggregato memorialistico, racconta dunque di una civltà ormai scomparsa, facendo direttamente parlare i protagonisti secondo la tecnica dell’antropologia: quella dell’ascolto da parte dell’intervistatore e della trascrizione dei dati raccolti nel rispetto scrupoloso di come gli vengono raccontati. E di quest’ultima esigenza era sostenitore Giuseppe Pitrè, intollerante a ogni tipo di manipolazione. Ne viene fuori la fisionomia di una comunità con i suoi suoi modelli culturali connotati da riti magici, religiosi, propiziatori e che il curatore minuziosamente evidenzia nel suo ricco intervento che segue alla limpida prefazione di Marco Scalabrino. Tanti i pregi dell’operazione culturale condotta da Giovanni Dino che, in primo luogo, ha voluto omaggiare l’autrice, premiandone la poderosa ricerca. Felice indubbiamente la sua intuizione di far tradurre in lingua, con testo a fronte, l’ampio materiale raccolto, affidando il non facile compito a studiosi di diverse località della Sicilia. Siamo nella scelta del bilinguismo che sicuramente favorisce la lettura del libro a studiosi, esperti e appassionati della scienza del folklore appartenenti alle diverse aree geografiche del Paese. Annota Giovanni Dino:
"Tredici penne, con un curriculum non indifferente, hanno deciso di impelagarsi con me in un’opera da restaurare e da tradurre in italiano".
Precisa poi che lettore ha modo di apprezzare dalla traduzione la bellezza poetica, ove si consideri, e l’aveva già sostenuto nell’Ottocento lo scrittore e antropologo Serafino Amabile Guastella, che anche i moduli comunicativi vernacolari possiedono il vigore espressivo della letterarietà.
Chiudono il libro, comprensivo di un pregevole glossario e di un essenziale apparato bibliografico, diversi contrbuti sulla vitalità del dialetto, da Ignazio Buttitta chiamato "la lingua adottata dai padri". Ha ragione Marco Scalabrino quando ad apertura della prefazione sottolinea la sfida vincente di Giovanni Dino. Questo nuovo contributo infatti offre una indispensabile lente attraverso la quale osservare una laboriosa comunità, un documento prezioso dunque che Giovanni Dino, dopo averlo reso leggibile e comprensibile, mette ora a disposizione di noi lettori, riuscendo a risultare parimenti utile tanto a chi ha già dimestichezza con la problematica del folklore quanto a chi, per converso, dovesse per la prima volta accostarsi a una notevole quantità di informazioni, offerta con puntualità e dovizia di particolari, sì da poterne apprezzare il gusto creativo di un popolo. Scrivere la storia di una comunità attraverso gli usi e i costumi e nella lingua vernacolare è certamente opera meritoria in una società globalizzata , dove pare si siano smarrite le specifiche diversità. Compilare una carta d’identità collettiva, redigere una sorta di catasto socio-affettivo, a dirla con Gesualdo Bufalino, è un’impresa non soltanto rievocativa, ma rappresenta anche un’occasione per offrire un modello di conoscenza del territorio secondo gli insegnamenti della scuola degli "Annales", giacché storia non è soltanto quella evenemenziale di fatti diplomatici e di trattati, di guerre e di rivoluzioni sanguinolente. Storia è una parlata, un nome che indica comportamenti, il lavoro dell’umile gente che l’accompagnava con canti e modi di dire e proverbi caratterizzati dal gusto della metafora e dal pregevole lavoro linguistico di sintesi.
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