Il lavoro non è una merce
- Autore: Luciano Gallino
Non è un libro piacevole da leggere. Non perché sia scritto male, ma perché delinea un quadro fortemente pessimistico sul mondo del lavoro, caratterizzato sempre di più dal largo uso del lavoro flessibile. Il termine flessibile è un eufemismo per indicare il lavoro precario, lavoro di cui le aziende italiane – e di tutto il mondo industrializzato – hanno fortemente bisogno per competere nel libero mercato della Globalizzazione. La Globalizzazione ha rivoluzionato il mondo dell’economia, ha abbattuto i confini nazionali e permette il libero scambio di idee, merci e persone con una velocità che in passato non era concepibile. E’ completamente cambiato lo stile di produzione, l’organizzazione dell’industria, il modo di rapportarsi coi consumatori e di vedere il lavoro, ossia non più un’occupazione statica, per quanto rassicurante, ma un’attività dinamica posta all’interno di un mondo dinamico, soggetta a continui cambiamenti e riorganizzazioni volte al continuo e progressivo perfezionamento dell’attività lavorativa e del lavoratore stesso. Quest’immagine ottimistica ed edificante del lavoro non corrisponde però alla realtà. Il mondo dell’impresa segue e propina all’aspirante lavoratore questo falso mito del continuo arricchimento personale che il lavoratore dovrebbe avere grazie al lavoro all’interno dell’impresa che l’ha assunto e propone un’esperienza di lavoro che gli permetta la possibilità di rendere la sua esperienza lavorativa breve, ma ricca. Questo è possibile col lavoro flessibile per l’appunto: in questo modo il lavoratore non dovrebbe essere soggetto ai vincoli permanenti del posto fisso, ha la possibilità di cercare lavoro in altre imprese e di fare carriera.
Ma non è così. Usando il termine più adatto per definire lavoro flessibile, ovvero lavoro precario, sappiamo che precario è una cosa che si è ottenuta solo in base a una concessione ed è quindi facilmente revocabile.
Col mito del lavoro flessibile, è il lavoratore che deve chiedere all’azienda di lavorare, "pregando" che questa sia così generosa da concederglielo, non è l’azienda che ha bisogno dei lavoratori, ma il contrario. In questo modo l’azienda può concedere lavoro a un lavoratore e levarglielo quando vuole. L’azienda non è tenuta a rinnovare un contratto di lavoro flessibile ed è completamente esonerata dall’occuparsi di ciò che farà un lavoratore dopo la fine del contratto. Oltretutto, nella maggior parte dei casi, l’esperienza di quei lavoratori ai quali è stato concesso un contratto flessibile non è la fonte di arricchimento personale come sembra, ma un’esperienza troppo breve perché il lavoratore possa trarne importanti benefici per la sua carriera. Con lavoratori a breve termine, le aziende non spendono risorse per corsi di formazione atti a incrementarne le capacità, non forniscono una buona copertura sanitaria, i lavoratori non hanno la possibilità di affiliarsi e coalizzarsi in movimenti sindacali, hanno perfino scarse possibilità di socializzazione, dato che sono di passaggio e non conviene creare legami di amicizia duraturi.
Molti lavoratori collezioneranno una serie di esperienze lavorative frammentarie, discontinue e poco interessanti per un’eventuale assunzione in nuove imprese. Il lavoratore è costretto a ritmi frenetici inframezzati da periodi più o meno lunghi di ricerca di lavoro, vi è poco tempo per incrementare le proprie conoscenze, vi è poco tempo perfino per coltivare le relazioni personali e familiari.
Gallino mette in guardia contro gli ottimismi delle campagne elettorali, smaschera il modo in cui molti dati sull’occupazione sono distorti e strumentalizzati, mette in guardia contro una lettura di dati statistici superficiale. Se un politico dice che è aumentato il lavoro occorre vedere se è una semplice conseguenza del fatto che molti lavoratori sono stati regolarizzati dopo anni di lavoro in nero, non basta dire che la disoccupazione è diminuita, bisogna anche controllare la qualità del lavoro occupato!
La situazione italiana è quantomeno preoccupante da questo punto di vista. In altri paesi europei, il fenomeno del lavoro precario e i suoi effetti deleteri sono mitigati attraverso la cosiddetta flessicurezza, ovvero un sistema in cui il lavoro precario è nella norma, ma dove sono presenti ammortizzatori sociali che sostengono chi è in ricerca di nuovo lavoro (ben più sostanziosi di quelli italiani), corsi di formazione che migliorino le capacità dei lavoratori e la possibilità da parte dei lavoratori di ottenere, dopo una lunga serie di contratti a tempo determinato, l’ambito contratto a tempo indeterminato.
Si tratta però di interventi che limitano le conseguenze distruttive del lavoro flessibile, ma non lo eliminano, anzi lo incoraggiano e non si pongono domande sulla logica che ne è alla base.
Il lavoro flessibile è un figlio naturale di questo mondo della Globalizzazione, un mondo nel quale hanno fatto ingresso i paesi in via di sviluppo, paesi con aggressiva competitività ottenuta grazie a condizioni di lavoratori inique. I bassi salari dei lavoratori in quei paesi permettono a questi di offrire merci e servizi a prezzi molto più bassi dei prezzi di prodotti dei paesi industrializzati. La flessibilità è la risposta di questi ultimi, un tentativo di competere sui mercati internazionali con gli altri paesi. La profonda contraddizione di questa situazione risiede nel fatto che molte delle imprese che sfruttano i lavoratori nei paesi in via di sviluppo ricevono capitali dagli stessi paesi industrializzati con i quali competono sul mercato.
Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità
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