Nel 1997 il poeta Francesco Scarabicchi (Ancona, 1951) pubblicò presso il piccolo editore bresciano L’Obliquo una raccolta di poesie, “Il prato bianco”, che venne accolta con notevole interesse di critica, e che oggi Einaudi ripropone nella sua prestigiosa collana bianca.
E proprio il bianco (inteso come candore, pulizia, sospensione neutra), è un non-colore che ricorre non solo nel titolo del volume, ma in tutto il corpo del testo:
“i miei pensieri bianchi / come il sale”, “la strada bianca”, “povero niente bianco”, “passo di notte bianco”, “un’ombra bianca”, “questa nebbia / bianca”
La stessa chiarità che anima i ricorrenti lucori, le albe, le luci domestiche e notturne, le nebbie soffuse e le nevi. Nessun altro colore, in questi versi, se non un «innocente azzurro», un pallido verde, un grigio.
Una discrezione che viene ribadita dalla scelta degli aggettivi, mai imperiosi, e invece appena suggeriti: muto, spento, povero, lontano, calmo, vago, solitario, tenero, tranquillo, paziente, leggero, breve, sospeso, vano, arreso, chino, trepido, impreciso, segreto, sommesso, consueto… molti dei quali più volte ripetuti, a sottolineare una modalità di tono volutamente dimesso, non prevaricante. E così avviene anche per i titoli che scandiscono le varie sezioni: Ombre, Soglia, Bisbigli, La sosta, Le serre silenziose, e i sette Preludi, che sembrano indicare un avvicinamento, un presagio, un suggerimento più che una reale entrata, presa di possesso, irruzione nella concretezza del reale.
Francesco Scarabicchi sembra osservare il mondo e se stesso da una sorta di impalpabile estraneità, quasi in punta di piedi e sempre sottovoce, aborrendo qualsiasi veemenza o imposizione,
“lasciando intatti / il garbo e la misura”: “Seduto a lume spento, / ho visitato / il mondo senza me”, “prima che possa anch’io / fare a meno di me”, “Piano m’abituo a perdere, paziente”.
Non solo il paesaggio, con le sue stagioni e i suoi panorami, sfuma in un’indistinta lontananza, timorosa dell’appropriazione sopraffattrice; anche le figure umane, persino le più amate (la donna che “guarda senza colpe”, il caro amico e maestro Franco Scataglini), sono tratteggiate con un pudore timoroso di offesa, in cui il non detto, il sottinteso, assume una pregnanza e un valore più evidente delle parole stesse (“Sta seduto di spalle l’uomo solo”, “Che ne sarà dell’uomo / paziente e solitario / che vedo rincasando, / dipingere un cancello?”, “Rari passanti scendono con calma / e poi scompaiono”).
L’evidenza va oscurata, nel prediligere sempre la discrezione dell’ombra (“la garza della luce”, “vetro affumicato”); e “ombra”, appunto, in tutte le sue declinazioni, è sostantivo privilegiato, rispetto all’invadenza della luminosità (“Finalmente distanti / dalla noia del sole”). Un’ombra che diventa metafora dello sguardo socchiuso con cui il poeta si pone davanti alla brillantezza, troppo esibita e aggressiva, della realtà.
Allora l’epigrafe di sei versi in regolarissimi endecasillabi con cui si apre il volume diventa una dichiarazione di poetica, la perfetta introduzione (non solo estetica ma soprattutto etica), al suo credo:
“Porto in salvo dal freddo le parole, / curo l’ombra dell’erba, la coltivo / alla luce notturna delle aiuole, / custodisco la casa dove vivo, / dico piano il tuo nome, lo conservo / per l’inverno che viene, come un lume”.
Porto in salvo-curo-custodisco-dico piano-conservo: un’attitudine materna alla dolcezza, all’attenzione, alla cura. Che stranamente ritroviamo in molti poeti contemporanei occidentali, da Strand a Jaccottet, da Larkin a Bonnefoy, dai nostri De Signoribus, Damiani, Fo, Lanaro, Riccardi e Pusterla, ai recentemente pubblicati – proprio da Einaudi – Strumia e Consonni: quasi che il rifiuto di un imporsi virilmente e retoricamente aggressivo sia stato introiettato anche a livello stilistico, con la scelta meditata di un’introspezione minimalista e intenerita. Mentre ci imbattiamo frequentemente in una poesia femminile ben più puntuta, armata, energica: da Sexton a Cassian, per arrivare alle italiane Cavalli, Valduga, Gualtieri, Insana, Frabotta, Annino, Calandrone, Policastro.
Sarebbe divertente indagare gli stili poetici attuali anche da un punto di vista sociologico e psicanalitico, sia nei più docili arretramenti maschili sia nelle spavalde perentorietà femminili.
Il prato bianco
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