Il ricordo della Basca
- Autore: Antonio Delfini
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
Cesare Garboli, saggista, studioso e letterato italiano, celebra Il ricordo della Basca come uno dei “libri più belli e sfortunati del Novecento”. Sempre Garboli, dopo averne studiato le opere e averlo conosciuto anche personalmente, ne definisce l’autore, Antonio Delfini, come “un uomo sempre fuori tempo”.
In un articolo del 1992, scritto su La Repubblica in occasione della ristampa del libro dopo la prima uscita nel 1936 e la riedizione della Casa editrice Nistri-Lischi di Pisa nel 1956, poi vincitrice del Premio Bagutta Vent’anni dopo nel 1957, lo studioso ci tramanda Delfini come
“uno scrittore di cui non si sa mai, un rigo prima, che cosa succeda nel rigo dopo; è così poco scolastico da farci dimenticare completamente che la letteratura sta passando nelle sue pagine”.
Ciò che Garboli intendeva è che in Delfini “la sapienza letteraria, non coincide mai con la consapevolezza o la premeditazione letteraria” anzi, forse era vero il contrario. Delfini stesso, nel panorama letterario del suo tempo — che cominciava ad abbracciare lo sperimentalismo, a cui i decadentisti stavano lasciando il passo — si definì un “emotivista”; un precursore, inconsapevole, del tipo di narrazione che oggi, in Italia, conosciamo come flusso di coscienza.
Antonio Delfini fu, senza dubbio, un autore fuori dagli schemi tradizionali. Innanzitutto era un autodidatta, che si affacciò al mondo letterario senza appartenergli mai. Anzi, in molti suoi scritti, e anche in Una storia, la lunga prefazione che precede la raccolta de Il ricordo della Basca — chiamata infatti Il ricordo del ricordo della Basca — lo scrittore informa diverse volte il lettore del fatto che quel mondo letterario e quel modo di vivere degli scrittori dell’epoca non lo rappresentavano, e spesso li scherniva con invettive ironiche al limite dell’insulto:
“Pochi scrittori, credo, hanno odiato gli altri scrittori come li ho odiati io. Dopo una giornata con gli scrittori, non mi riusciva nemmeno di leggere. Passavo momenti in cui desideravo veramente uccidere”.
“La mia è una discesa continua; talvolta procurata dagli amici che ho avuto; talaltra, aiutata dalla mia disperazione a vedere gli amici che ho avuto, guardarmi, compiaciuti (col loro sguardo freddo tra di tedesco, di eunuco, e di triglia) scivolare verso il basso. Ma si illudono. Poiché il basso verso il quale scivolo, non è che un elevatissimo altipiano: mentre alle loro spalle; di sulle vette dalle quali par che mirino altezzosi, coi loro sguardi annoiati e incomprensibile; li attende il baratro”.
Malgrado la distanza dai salotti letterari, Delfini strinse importanti amicizie con grandi scrittori a lui contemporanei. Alcuni lo aiutarono anche a far circolare le sue opere, come Ginzburg, Garboli e Giorgio Bassani, cui si deve l’uscita del Delfini poeta (Poesie della fine del mondo), mentre un insieme di suoi numerosi scritti rimasero inosservati e non ritenuti, sul momento, neppure degni di pubblicazione.
Oltre alla scrittura si ritagliò un ruolo nell’ambiente culturale dell’epoca, dedicandosi al giornalismo con due testate, L’ariete e Lo spettatore italiano, partecipò alla redazione di Oggi e Caratteri, fondò Il Liberale. Ma ciò, insieme ai contenuti e allo stile irriverente, non gli valsero mai il riconoscimento ufficiale del mondo letterario. Da qui, la definizione di Garboli come uomo fuori tempo.
Il ricordo della Basca è ritenuto ormai il suo capolavoro. Scritto nella primavera del ’56, nella casa di via Scarpellini durante il suo trasferimento a Roma, che sempre secondo Cesare Garboli, fu “una delle stagioni più creative della sua vita”, il libro ha determinato il riconoscimento postumo del suo valore letterario. La raccolta di racconti, divenuta oggi un libro quasi introvabile, è la summa delle tematiche ricorrenti della sua vita che si riflettono nella sua scrittura.
La Basca era una ragazzina, da lui così soprannominata perché spagnola e incontrata durante la guerra civile del suo Paese:
“In un giorno del principio di primavera del 1937, alla stazione di Firenze mentre aspettavo il solito treno per Bologna […] Lei diceva pochissime parole e le scandiva ritmicamente dando a tutto il suono il senso di una musica composta per una ballabile rassegnazione. Non mi parve bella, ma ne scoprii subito una grazia indiscutibile […] Tutto il suo corpo, nell’insieme, tendeva alla rotondità di una purezza assoluta. Aveva lungo il taglio delle labbra che erano delineate, chiare, di una pelle rosa, appena rossa, e erano sottili, accese da una lievissima umidità: si riflettevano in un sorriso, quasi senza ironia, di un genere che la gioconda ancora non conosce”.
L’incontro diventò il simbolo di un’imperitura fuga dalla realtà; lo scrittore sviluppò per lei un amore ideale, quasi ossessivo: "Sono passati diciannove anni da quel giorno del principio di primavera del 1937, e quell’incontro torna a essere, come è sempre stato, pieno di rimproveri di prospettive e di speranze. Lei venne da me chiamata la Basca”, simbolo del suo rapporto travagliato con la realtà.
Ne Il ricordo della Basca i racconti esprimono l’altalena che Delfini usava per avvicinarsi e allontanarsi dalla realtà, rifugiandosi nel sogno e nel ricordo. Un modo per essere e non essere se stesso, che, paradossalmente, gli permetteva di diventare se stesso in modo autentico, di vedersi nelle varie tappe della propria esistenza; un ponte che permette al ricordo di congiungere passato e futuro; un luogo di convivenza di tutte le dimensioni esistenziali degli uomini.
Molti racconti, anche nella raccolta Il ricordo della Basca, risentono un po’ dell’influsso surrealista che Delfini subì nella sua esperienza parigina dove fu in contatto con Andrè Breton, padre della corrente. Ne rimane prova consistente solo nel Fanalino della Battimonda, scritto nel ’33; nel resto della sua produzione molto si perse nell’adattamento alla realtà provinciale modenese.
L’Introduzione (Una storia - Il ricordo del ricordo) aggiunta a Il ricordo della Basca ha carattere per lo più autobiografico, ed è diventata la parte più quotata a livello letterario. In un centinaio di pagine, racchiude forse l’unico vero romanzo mai scritto da Delfini, che si dedicò solo a racconti, e che forse proprio per questo non arrivò mai al successo conclamato, come spesso accade per chi predilige la forma espressiva breve. In questo pseudo-romanzo, lo scrittore parla del suo approccio alla letteratura, alle storie, e spiega in cosa consiste la raccolta e il racconto che le dà il nome, quasi tradisce l’esigenza di spiegarsi e spiegare al lettore, il fil rouge che i singoli racconti possiedono. Ma nell’Introduzione Delfini parla anche della sua filosofia di vita, e di come in qualche modo intaccò la sua carriera di scrittore:
“Frequentando una scuola di scherma, e ottenendo alti incoraggiamenti dal maestro, per la mia snellezza e soprattutto perché ero mancino, pensando alla possibilità che avrei avuto un giorno di superare un Nedo Nadi (schermidore livornese; unico ad aver vinto la medaglia d’oro contemporaneamente in fioretto, spada, sciabola, nella stessa Olimpiade, Anversa 1920, e detentore del record del maggior numero di ori vinti nella scherma nella stessa olimpiade, 5, n.d.r.) […] già soddisfatto di questo pensiero; rinunciai alle lezioni di scherma: perché essendovi nella vita migliaia e migliaia di cose più importanti già conosciute non ammettevo di perdere tempo a continuare un’esperienza ormai più che scontata […] Da queste mie aspirazioni, che col tempo si erano trasformate in un caos di nuvole dense, […] si era venuto formando il mio mondo segreto, e mai, fino allora, espresso”.
Una vita fortemente caratterizzata dalla rinuncia, dal rincorrersi astratto del pensiero, il sogno come sostituto della realtà che ne determinò via, via l’allontanamento. Amara è la conclusione dello scrittore:
“Non credevo però che abbandonando praticamente ogni carriera andassi incontro al fallimento non solo di uomo, ma a quella di scrittore, cioè a quella che io ritenevo (e ritengo tuttora) la somma di tutte le carriere”.
L’impronta densamente autobiografica dell’Introduzione alla raccolta, ha fatto dire ai suoi studiosi che Delfini probabilmente trovò il modo (e il coraggio) di scrivere un romanzo senza dichiarare di farlo, in linea con la confessione che l’unico modo per parlare della realtà era secondo lui mentire, ovvero non parlarne:
“Perché non si scrive mai di ciò che esiste, ma soltanto di ciò che non esiste”.
Un esempio di questo si ha proprio ne Il ricordo della Basca, dove l’immagine della ragazzina conosciuta alla stazione e il sentimento provato per lei, si sovrappone e si intreccia con quello di un’altra vecchia fiamma idealizzata, Margherita Matesillani, alla quale, neppure, Delfini ebbe mai il coraggio di dichiararsi; le due donne quasi si confondono nel suo ricordo, e finiscono per confondere anche il lettore sui sentimenti che lo scrittore prova per l’una o per l’altra. Specchio dell’eterno gioco delfiniano tra la vita ricordata, da una parte, e quella che avrebbe potuto essere se…, dall’altra.
In Delfini quasi tutto è possibilità mancata, occasione non colta, e nei racconti contenuti in questo libro spesso ricorre la storia di amori non vissuti, progetti non realizzati, spinte che si bloccano. In questo senso Delfini fu, nella vita come nell’arte, uomo “in guerra con la realtà”, che tuttavia non lasciò mai un senso di incompiutezza cupo nella sua letteratura, anzi il clima e i colori delfiniani sono sempre netti e tenui, delicati, come il tono della sua scrittura, al punto che Cesare Garboli, tratteggiandone un ritratto assai fedele e obiettivo sotto il profilo letterario e personale, lo ha definito nel suo libro omonimo “un uomo pieno di gioia” (Un uomo pieno di gioia, Minimum Fax, 2021).
Resta il fatto che ne Il ricordo della Basca sono contenuti alcuni tra i racconti più innovativi della nostra letteratura contemporanea, sia dal punto di vista della struttura narrativa, che da quello linguistico. Malgrado il libro subì sorte molto difficile, poiché l’uscita fu bloccata dal MinCulPop — il Ministero della Cultura Popolare che, nell’epoca fascista, era preposto al controllo interstiziale della cultura, stampa e delle pubblicazioni in generale — e anche negli anni seguenti, lo stesso editore Lischi affermò che il libro “fu il meno diffuso, della collezione meno diffusa, dell’editore meno diffuso d’Italia”.
Eppure i dieci racconti ci tramandano una voce fresca, pura, cristallina, a tratti musicale, di una semplicità lessicale e sintattica disarmanti nel condurre il lettore a scorrere le pagine con gioia e avidità. È impossibile leggere Delfini senza provare un profondo senso di quella che può essere definita come “leggiadria”. Un ritmo lieve, a tinte e gesti lievi, nel quale i passaggi ondeggiano nella mente del lettore come un valzer soave.
Talvolta ironico, sempre trasparente, mai complicato, né ricercato Delfini, nei dieci racconti della raccolta, descrive, con uno stile mai ridondante, asciutto, diretto, e soprattutto poetico, scene di vita che si svolgono per lo più nella sua Modena (la definisce tale solo nell’Introduzione, ma nei racconti sarà sempre M***); città a cui fu legato da amore-odio, che non ne riconobbe e celebrò mai il valore, e proprio all’indomani della pubblicazione de Il ricordo della Basca non gli tributò alcun onore cittadino, anzi, lo osteggiò. Notevole è infatti la presenza del clima nel quale Delfini visse e scrisse, il clima politico e sociale emerge assieme a quello culturale, sostrato consistente alla stesura dei racconti. Molte sono le invettive al “Fascio”, come lo chiamava; molte le frecciatine all’indole italiana, di cui riconosceva vizi e grettezza, eclatante il passaggio dell’Introduzione:
“Il carattere sozzo, strozzinesco e delinquenziale di gran parte di quegli italiani cittadini che, falsi innamorati della vita, e consci della loro povertà senza America, intendono comechessia farsi la vita e l’avvenire col bagno, l’automobile, le troie e i gioielli. Questo gusto da sciacalli, gli italiani ce l’hanno nelle ossa fin dai momenti migliori della grandezza di Roma, affinato con le invasioni dei barbari, diventato costituzionale con la servitù allo straniero, portato al delirio fanatico degli alti ideali col fascismo, e caduto in un puzzo graveolento da rendere irrespirabile lo stesso dolce clima dell’Italia”.
Nei racconti delfiniani non c’è un’accuratezza della parola, intesa come ricerca estenuante della parola perfetta, eppure è tutto straordinariamente al suo posto in queste dieci storie. È come se la scrittura fosse impulsiva. L’assenza di “premeditazione” nella voce di Delfini è testimoniata dal tornare, ricapitolare, dal fare il punto su dove era rimasto prima di lunghe digressioni, o l’abbandonarsi a ricordi solo apparentemente fuori contesto, che si trovano quasi in ogni racconto. Eppure, questo modo di procedere nella scrittura non l’appesantisce mai, rimane sempre quel senso di musicalità che allieta chi legge e lo distende nell’attesa che l’autore gli racconti le sue storie, gli faccia incontrare i suoi personaggi, reali o fittizi che siano in quel mix tra realtà, ricordo e finzione che lo contraddistingue.
C’è in Delfini la voglia irrefrenabile di raccontare, colloquiando, lasciando che le parole siano funzionali alla storia e non il contrario. Una modernità indiscussa nell’uso della parola, nella costruzione del periodare che lo rende attuale, malgrado il trascorrere del tempo viaggi ormai verso il centenario dalla stesura. Basti pensare a quel “Beatrice ‘900”, come definisce nell’Introduzione, Nadia la donna di cui decise di innamorarsi a Varieggio per crearsi un’ispirazione alla scrittura da grande poeta; o in quel passaggio dove racconta dell’ultimo giorno nella casa di Modena, venduta per ritirarsi a Cavezzo, in cui ricorda che si innamorò di “una girl viennese”. Indubbiamente una visione moderna e un linguaggio ormai lontano dalla tradizione dell’ottocento, nel quale pure confluiva il suo atteggiamento dandy raffinato.
Lo stile di Delfini è, a volte, anche onirico. Nel racconto Vita, nella raccolta, i personaggi in preda ai ricordi non vissuti si perdono in una dimensione che non è più la realtà, perché come egli stesso scrive:
“La realtà è in gran parte nell’assurdo, in quell’immaginazione che è a un passo per diventare realizzazione, ma che non lo diventerà mai".
Delfini ama, vive e scrive una dimensione che non esiste, dunque. Quella che avrebbe potuto essere ma non è stata, quell’attimo di mezzo che divide un progetto dal divenire reale, il ricordo dall’essere passato e il presente dal diventare futuro.
Lo scrittore è grandioso nel costruire le sue storie sul non vissuto, nel descrivere l’emozione che circonda le attese, i sogni, lui dice di sé: “amo le grandi gesta che partii, e perché sono un vigliacco che scappai subito”, l’apice della contraddizione che, nella scrittura (come nella vita), lo rese talmente eclettico da non potere essere identificato con un genere ben definito. I racconti della Basca riflettono alla perfezione questo suo atteggiamento esistenziale e letterario di andirivieni di sensazioni e pensieri, oscillazione dei sentimenti e delle illusioni che si alternano nelle fasi esistenziali.
Un’altra caratteristica straordinaria di questo libro è la bellezza degli incipit. Delfini non ne sbaglia uno. Una serie innumerevole di aperture che immergono lo sguardo del lettore nel racconto come mettendolo di fronte a un quadro; una galleria di immagini disegnate con naturalezza e precisione che lasciano scorrere la pagina senza neppure accorgersi del lavoro di lettura, e si è già trasportati nei diversi mondi delfiniani, dove la voce entra ed esce dalla poesia con disinvoltura, come fossero note che si sistemano sul pentagramma:
“Era un uomo vecchio, aveva cinquantaquattro anni, ma non aveva capelli bianchi perché se li tingeva di nero. Adesso camminava piano piano verso casa, pensando che presto sarebbe giunto il momento di morire, e si lasciava invadere da una tale paura che quasi più non camminava. Il fumo, i discorsi (massime le derisioni) del caffè gl’intorbidivano i sensi in maniera da farlo fermare contro una colonna del portico per mezz’ora e più con questa frase in bocca: “Oh Dio sto per morire”. Anche da giovane quest’uomo sentiva, come pochi, la paura della morte. Ma invecchiando, e specialmente in questi ultimi mesi, il fatto morte era diventato per lui quasi una vita. Rincasava tardi, la sera, verso le due, quando si chiudeva il caffè principale dove andava ogni giorno da anni e dove tutti lo conoscevano, spesso senza salutarlo.” (Il Maestro)
O ancora, la meravigliosa e femminile descrizione della protagonista di Morte dell’amante:
“Evelina era sul pianerottolo del terzo piano di una modesta casa di via Canaletto. Era tutta ansante e ogni tanto gemeva: “Oh Dio me!”. Aveva lasciato cadere per terra lo scialle che le aveva ricoperto le spalle e la schiena nude nel tragitto dal ballo di San Faustino (O.N.D. della Fratellanza) alla casa di suo padre. Era scappata dal ballo senza che le amiche, le quali le si erano messe intorno per la sciagura, potessero trattenerla o accompagnarla, ed era salita sull’autobus in corsa, perdendo quasi una delle sue scarpe bianche col tacco altissimo marron”.
E infine il magistrale avvio de La modista, racconto di apertura della raccolta, in cui riprende l’immagine, a lui carissima, del quadro più volte citato di Cezanne:
“La signora Elvira aveva passato la sessantina. Seduta su una poltrona morbida a fiorami, dai comodi braccioli, reclinava la testa. Pareva dovesse perdersi laddove le era facile andare ma doloroso tornare. Quante volte, la notte, negli anni giovanili non si era seduta, esausta, in quella poltrona? Guardava allora l’ampio letto dalla grande coperta bianca coi pizzi. La coperta si era un po’ sciupata. Ma questo non importava allora, purché Arturo tornasse ogni sera!”
Leggere Antonio Delfini significa connettersi con un animo candido. Più volte gli studiosi ne hanno esaltato il candore espressivo e, nella lettura, è questo che in effetti emerge. La naturalezza, la purezza che più volte porta a soffermarsi su interi periodi in cui questo candore si trasforma in pura, delicata, poesia, come la definizione dell’amore ne Il fidanzato:
“Quello che facciamo noi, è la cosa più antica e più rara della terra: l’amore. C’è una società che ha reso questa parola ridicola. E noi ne siamo felici, perché il nostro amore è ridicolo, noto, antico, sorpassato, ma unico perché solamente te ed io lo conosciamo…”.
Un coacervo di pensieri, di sensazioni, scaglie di realtà che si assottigliano di fronte all’idealizzazione e al ricordo, tutto questo è, e ci ha regalato, la fine letteratura di Antonio Delfini. Un dissidio interiore tradotto nel più raffinato dei modi possibili.
“Un giorno la casa dove abito scoppierà di tutti i miei pensieri non osati, e di tutte le mie opinioni cambiate che non ho avuto il coraggio di esprimere”. Antonio Delfini.
Sono state consultate per alcune note sulla vita dell’autore e per le sorti del libro i seguenti testi:
Cesare Garboli, Un uomo pieno di gioia, Miminum Fax 2021;
Cesare Garboli, Delfini il vagabondo del ‘900, articolo pubblicato su La Repubblica, 1992;
Biblioteca Estense, Beni culturali, Antonio Delfini, Modena 1907-1963, Immagini e documenti, Libri Scheiwiller Milano, 1983, in http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/esp/i-mo-beu-1983-racc.delfini.14.pdf;
Dario Tomasello, Il romanzo mancato e Il ricordo della Basca, ne Il racconto modernista in Italia, Biblioteca di Sinestesie, 39;
Antonio Delfini, Autore ignoto presenta, Introduzione e cura di Gianni Celati, con un saggio di Irene Babboni, Einaudi, 2008;
Treccani, voce Antonio Delfini.
Il ricordo della Basca
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