Il simbolismo della messa
- Autore: Carl Gustav Jung
- Genere: Religioni
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Bollati Boringhieri
Il simbolismo della messa di Carl Gustav Jung (Bollati Boringhieri, terza edizione 2020, pp. 168, prefazione di Luigi Aurigemma, traduzione di Elena Schanzer) è un testo chiave per comprendere i “simboli di trasformazione”, processo essenziale della psicologia del profondo junghiana.
Trasformazione significa rigenerazione, conoscenza e autocoscienza, integrazione dell’inconscio nel conscio, individuazione e svelamento del Sé. Si tratta di concetti noti agli studiosi, ma anche intuitivamente accessibili a chiunque si sia posto in un cammino di ricerca interiore, la quale sfocia in ciò che religiosamente in occidente è chiamato redenzione, in oriente illuminazione e "moksha", liberazione. Per dirla con Dante e il suo Ulisse:
"Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza".
Le riflessioni contenute in questo breve ma densissimo saggio non riguardano soltanto il credente o lo psicologo o lo studioso di storia delle religioni, bensì si pongono sul terreno della cultura universale e fanno luce in noi, secondo il monito socratico "Conosci te stesso", esortazione scritta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi.
Ci addentriamo nell’universo dei simboli. Jung scrive come risposta al teologo cattolico Gallus Jud che si era spinto nella comprensione della ritualistica in chiave allegorica. Egli è profondamente rispettoso del mistero, anzi il grande studioso dell’anima sa perfettamente quanto l’indagine scientifica basata sull’esperienza con i pazienti nulla tolga alla dimensione sacrale e fideistica dell’esistenza. Scrive:
“Il fatto di considerare una cosiddetta affermazione metafisica come un processo psichico non giustifica affatto che questo sia “unicamente psichico” […] come se con la parola “psichico” si venisse a stabilire qualcosa di universalmente conosciuto! Non è ancora abbastanza chiaro che quando diciamo “psiche” accenniamo simbolicamente all’oscurità più fitta che si possa immaginare? Sta all’etica del ricercatore riconoscere dove finisce il suo sapere. Questa fine è infatti l’inizio di una più alta conoscenza.”
Nella prima parte del saggio Jung descrive il rituale che, come ben sappiamo fin dall’infanzia, inizia con l’Offertorio. Il pane e il vino vengono trasmutati idealmente, spiritualmente, e con essi viene trasmutata la psiche dell’officiante e dei fedeli. Nel preambolo pane e vino vanno offerti e qui si attua la benedizione e una piccola elevazione, con tutti i significati del benedire; il più significativo è la purificazione. Si tratta di un primo volo, di un primo distacco dal contingente e dal mondo materiale. Nel parallelismo con il processo alchemico, questa prima fase corrisponde alla purificazione della "prima materia" dalle impurità. Nell’alchimia ciò accade attraverso la macerazione della sostanza posta nell’ “athanor”, il recipiente chiuso sotto il quale arde il fuoco. Nel rito cattolico, fuoco simbolico sono le parole dell’officiante, che operano il miracolo.
Lo studioso si riferisce al significato profondo del cerimoniale, alla vita dell’anima che è sempre simbolo. È il simbolo a detenere il potere trasformativo, vale a dire è la psiche, con l’emergere degli archetipi eterni, a compiere l’iter. Il grano e la vite da tempo immemorabile sono espressione di vita, morte e rinascita. Non possiamo dimenticare qui "La messa sul mondo" di Teilhard de Chardin, celebrata senza doni visibili, senza il pane e senza il vino. Jung informa che nei primi secoli dell’era cristiana si celebrava con acqua e pane, dato che nelle Scritture l’acqua è metafora della vita eterna come nell’episodio biblico presso il pozzo di Samaria. Ancora si comprendeva che non conta il senso letterale dei misteri, ma quello nascosto, occulto.
La Consacrazione, con la grande elevazione seguente, suggella la trasformazione avvenuta. Il Dio è disceso nella materia e l’ha mutata. Il gesto del portare in alto rappresenta l’entrata nella vita spirituale, il rinascere dall’alto. Segue la Comunione, il cibarsi con una sostanza diversa da ciò che appare, affine certamente al "soma" dei vedici.
Nella sezione centrale dello studio, Jung come genialmente usa fare, compara e confronta il nostro rito con altri similari del mondo antico, in particolare il "teoqualo azteco", "mangiare Dio" per divenire Dio. Con lo "sbiancamento della vittima" presso i Bantù africani e la visione gnostica di Zosimo (alchimista, III-IV secolo). Egli sostiene che esiste una evoluzione nei riti. Il nostro è la fase più compiuta e perfezionata, raffinata, nella quale la vittima sacrificale umana è scomparsa. Nella visione-sogno di Zosimo effettivamente il sacerdote viene trafitto dalle spade, smembrato, cotto e mangiato. Gli aztechi praticavano sacrifici umani e di animali. Lo stesso dicasi per i Bantu. Nella Bibbia abbiamo il sacrificio di animali e quello, non compiuto, di Isacco. Per noi moderni il sacrifico, "sacrum facere", rendere sacro, accade senza spargimento di sangue.
Parentesi necessaria che non posso omettere: non sono un sacrificio terribile i giovani soldati mandati in guerra? E le vittime di bombardamenti? E i morti per fame e sete? Celebriamo sacrifici tremendi, non in vista della perfezione morale, ma in nome dell’avidità e del profitto.
La terza parte conclusiva del libro espone il significato del rito. I doni rappresentano il materiale inconscio estratto dal profondo. Trasmutarlo, con tutto il dolore e le tragedie in esso "sepolte", significa svelarsi, innanzi tutto. Ciò che viene conosciuto è "mangiato". Tale il senso del pasto sacro. Anche nel processo digestivo trasformiamo una sostanza in un’altra.
Non dimentichiamo che nella Messa in italiano la formula dell’offerta contiene la frase "frutto della terra e del nostro lavoro". Ciò indica la nostra fatica quotidiana, inserita nel contesto. Jung non poteva conoscere questa formula; il suo magnifico studio risale al 1942, eppure aveva pienamente compreso che nella Messa è in gioco la nostra esistenza, posta sull’altare.
Possiamo chiederci perché il rito eucaristico sia oggi tanto trascurato. Non crediamo più, abbiamo perduto la direzione verso Dio, non crediamo sia necessario "indiarsi", divenire divini, esprimere la scintilla divina in noi, per vivere. Così nel constatare la nostra povertà, Nietzsche nega Dio, non per blasfemia, per constatazione. Fa dire al pazzo che “Dio è morto” e lo fa gridare… al mercato. Le metafore sono chiare.
Oggi ci basta la tecnologia, nuova divinità. Il poeta Ted Hughes ha scritto che "abbiamo sostituito Dio con l’elettricità". Ciò dice tutto. I Nomadi, noto complesso musicale, hanno cantato che “Dio è risorto”. Allora abbiamo qualche speranza…
Parlando del Cristo gnostico, e in particolar modo del Vangelo di Giovanni, Jung scrive che abbiamo bisogno del:
“Richiamo della coscienza alla croce, la coscienza dev’essere ricollegata con l’inconscio e l’uomo inconscio con il suo centro, che è al tempo stesso il centro dell’universo; così dev’essere raggiunta la meta della redenzione e dell’elevazione dell’uomo.”
Oh, ancora una volta il Cristo cosmico di de Chardin!
Per Jung la Messa è un grandioso sogno e come tutti i sogni, se compreso e integrato, opere realmente la trasformazione del nostro essere “iliaco”, materiale perituro, in "pneuma", lo spirito eterno. Ovvero, siamo redenti nella consapevolezza di avere in noi, oltre il visibile, anche altro.
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