In difesa della poesia
- Autore: Percy Bysshe Shelley
- Categoria: Poesia
Percy Bysshe Shelley (1792-1822), uno dei più rappresentativi poeti del romanticismo inglese, ostile al conformismo e al fariseismo della società borghese ottocentesca, scrisse questo polemico pamphlet nel 1821, quando risiedeva in Italia, un anno prima di morire in un naufragio nel mare ligure.
In difesa della poesia (Mimesis, 2013 curato da V. Pepe) è un saggio denso e vibrante, ideato in un periodo di forti contrasti ideologici che animavano il mondo letterario e civile europeo.
In esso Shelley prende decisamente e fieramente le parti della composizione poetica intesa come unico antidoto in grado di opporsi al dominio dell’interesse economico, egoistico e calcolatore, che ottunde con le sue lusinghe la mente e la sensibilità dell’essere umano: “Il corpo è diventato troppo ingombrante per ciò che lo anima”.
Attività per eccellenza nobile e gratuita, la poesia si presta a diventare il mezzo privilegiato capace di alleggerire lo spirito appesantito degli individui e delle collettività, agendo non solo esteticamente attraverso lo stimolo dell’immaginazione, ma anche eticamente con la promozione della solidarietà e del sentire comunitario.
La contrapposizione tra immaginazione e ragione vede Shelley schierarsi apertamente in favore della prima delle due facoltà mentali, che caratterizza l’umanità già dai suoi albori. La ragione è sintetica, stabilisce i rapporti tra i pensieri, individua le differenze; l’immaginazione è analitica, arricchisce i pensieri, coglie le somiglianze tra le cose. È da quest’ultima che la poesia trae linfa per esplorare l’ignoto, avvicinarsi al bello, modulare armonie, creare metafore e associazioni, superando ogni contingenza temporale ed elevandosi alle verità eterne e universali.
La poesia solleva il velo dalla nascosta bellezza del mondo, facendo sì che le cose familiari appaiano come insolite; essa dà nuova vita a tutto ciò che rappresenta…
Shelley ripercorre la storia della poesia universale partendo da Omero (i cui eroi spronavano al raggiungimento di un grande ideale etico) per arrivare a Shakespeare, che con il Re Lear toccò la vetta dell’arte drammatica mondiale: ogni vera poesia educa, eleva, ammonisce, commuove e rende migliore chi ne fruisce. Ma nei periodi di decadenza sociale e politica, anche l’arte e la letteratura illanguidiscono, si raffreddano e involgariscono, perché esiste una corrispondenza inevitabile tra gli avvenimenti storici e la loro interpretazione creativa.
La realtà nutre la poesia, ma non la vincola alla sua pura descrizione. Spetta “ai ragionatori e ai meccanicisti”, ai filosofi e agli economisti politici, servirsi della ragione per allontanare “il fastidio dei bisogni dalla nostra natura animale”, assicurare agli uomini un’esistenza più sicura e tranquilla: a loro concerne l’utilità del pensiero e dell’azione. Tuttavia, il loro ruolo è circoscritto e temporaneo, legato a interessi particolari, spesso dipendenti dal potere delle classi dominanti. Scienziati, finanzieri e politici producono “gli effetti inevitabili dello smodato esercizio della facoltà computazionale”.
Ma “quale sarebbe stata la condizione morale del mondo” senza i poeti e gli artisti che con l’immaginazione e la creatività hanno illuminato, esaltato e consolato l’anima universale? Nell’idolatria del calcolo, del denaro, del successo
abbiamo mangiato più di quanto siamo in grado di digerire. L’assenza della facoltà poetica ha fatto sì che il culto di quelle scienze che hanno allargato i confini del dominio dell’uomo sulla realtà esterna, abbia man mano circoscritto quelli del mondo interiore, e l’uomo, pur soggiogando gli elementi, è rimasto schiavo.
L’esaltato fervore di Percy Bysshe Shelley “in difesa della poesia” lo porta a farne “qualcosa di divino”, “il centro e la circonferenza della conoscenza”, “la radice ed il germoglio di tutti gli altri sistemi di pensiero”.
Essa sola “rende immortale tutto ciò che di più bello e di più buono c’è nel mondo”.
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