Industriarsi per vincere. Le imprese e la Grande Guerra
- Autore: Andrea Pozzetta
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
Un grande libro, per un enorme sforzo industriale, che nel 1915-18 fece ascendere l’Italia tra le grandi potenze mondiali. Nel corso della Grande Guerra, il Regno dei Savoia nato da poco più di mezzo secolo mise in moto un poderoso apparato militare, ma mobilitò anche la grande industria. Non è un caso che la Fondazione Ansaldo abbia collaborato alla realizzazione del volume “Industriarsi per vincere. Le imprese e la Grande Guerra”, pubblicato dalle Edizioni Interlinea di Novara nel centesimo anniversario della vittoria (ottobre 2018, 208 pagine, 25.50 euro), a cura di Andrea Pozzetta e con una sempre eccellente presentazione del prof.
Alessandro Barbero, storico e docente specializzato tra l’altro in storia militare. Un libro di grande formato, 22x30 cm e soprattutto un grande libro fotografico, nella collana Edizioni illustrate e d’arte, della casa editrice piemontese.
900mila operai al lavoro nelle fabbriche: un altro esercito senza uniformi a sostenere lo sforzo bellico (200mila erano donne, 60mila minorenni). Costruivano armi, cannoni, proiettili, automezzi, aerei ed ogni altra cosa anche minuta utile ai combattenti, compreso cibo e alimenti in scatola e perfino alcol, presenza indispensabile in trincea prima di ogni assalto.
Alla vigilia di questo sforzo imprenditoriale, produttivo, organizzativo, l’Italia era una cosa piccola nel 1915, non certo una nazione industriale. Si guardi all’acciaio (ma lo stesso vale per altre materie prime, a cominciare dalla ghisa): il prof. Barbero fa notare che nel maggio di quell’anno per ogni tonnellata prodotta in Italia, la nostra diretta avversaria nel conflitto, l’Austria-Ungheria, ne produceva 3, Francia e Russia salivano a 5, la Gran Bretagna toccava le 9 e il colosso tedesco raggiungeva addirittura le 19 tonnellate di ottimo acciaio. Serve a costruire strade ferrate, cannoni, corazzate: si tratta del prodotto sulla base del quale si misurava la “statura” mondiale di uno Stato.
È evidente che l’efficienza e la saldezza dell’apparato industriale e produttivo erano un fattore determinante per potersi assicurare la vittoria. Non per niente, una delle ragioni della sconfitta delle Potenze Centrali derivò dalla scarsità di materie prime e risorse alimentari, aggravata dal blocco navale e territoriale imposto dalla Triplice Intesa, che ave il totale controllo dei mari.
Per tenere in campo, rifornire e alimentare gli eserciti, ogni nazione aveva dovuto creare e sostenere una nuova e complessa macchina produttiva da guerra. Un conflitto di massa in tutti i sensi: milioni di combattenti al fronte e quasi un milione di lavoratori nelle retrovie, per restare solo in Italia. Ed ora concorrevano allo sforzo anche le donne, al nord negli stabilimenti e al sud nelle manifatture conserviere.
L’industria venne militarizzata, con la creazione di un Comitato centrale della mobilitazione industriale, alle dipendenze del Ministero della guerra. Ai combattenti (6 milioni di arruolati nei 3 anni e mezzo del conflitto) serviva di tutto: scarpe, lacci, uniformi, bottoni, cinture, guanti, coperte, pentole, posate, gavette, borracce, vanghe, pale… una quantità enorme e svariata di oggetti, anche di uso comune. Non era solo questione di industria di armamenti, di grande cantieristica, di acciaierie e fabbriche aeronautiche.
Se ancora alla fine del 1915, gli stabilimenti ausiliari in Italia erano appena 221, diventeranno quasi 2000 a guerra finita. L’Italia conobbe una straordinaria e costosissima crescita. Più trasformazione che crescita, fa presente Barbero, perché la guerra non si tradusse in un fattore di sviluppo omogeneo per l’intera economia. Lanciò taluni settori, anche stabilmente come nel caso dell’energia elettrica e della motoristica, ma ad impegno bellico concluso l’esaurimento delle esigenze militari ebbe un effetto depressivo nei confronti di altri rami d’industria, che pure avevano sperimentato una crescita importante.
Di nuovo l’acciaio offre l’esempio più efficace: dalle 711 tonnellate prodotte nel 1915 la siderurgia italiana schizzò alle 1332 del 1917, per crollare alle 732 del 1919, nel primo dopoguerra. È una stagione di luci di ombre, perciò, quella documentata in questo volume fotografico a colori, come sottolinea Barbero. A parlare sono soprattutto le immagini riprodotte con un risalto straordinario. A parlare sono soprattutto le immagini, riprodotte con risalto straordinario, a colori e in bianconero. Fonte documentale e iconografica sono atti, foto storiche, cartoline, che provengono anche da musei e archivi delle aziende protagoniste: la Fondazione Ansaldo, il Centro storico FIAT, quelli delle aziende Alfa Romeo, Lagostina, Cirio (alimentare e conserve), Fiocchi (munizioni).
L’Ansaldo divenne la più grande impresa italiana, il gruppo di Sampierdarena costruì il 46% di tutto il parco d’artiglieria italiano, 3mila aerei, 96 navi da guerra, 10milioni di munizioni, 1500 motori d’aereo. Nello stesso tempo, la Fiat di Torino vide crescere i suoi addetti da 400 ad oltre 40mila, per produrre soprattutto autocarri, ma non solo.
Lo sforzo industriale del Paese non ebbe uguali. Vent’anni più tardi, la presuntuosa Italia fascista non seppe lontanamente ripeterlo, segnando anzi un percorso diametralmente opposto: da potenza mondiale sulla carta a Cenerentola dei grandi belligeranti. Un bluff industriale miseramente fallito.
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