Intellettuale a Auschwitz
- Autore: Jean Améry
“Intellettuale a Auschwitz” è una delle migliori rappresentazioni del nazismo e dei lager da un intellettuale belga ancora troppo poco conosciuto in Italia. Sguardo lucido e spietato.
Chi è Jean Améry?
Intellettuale, nasce a Vienna nel 1912, da famiglia ebraica. Compie studi di lettere e filosofia. Nel 1938 con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, emigra in Belgio. Arrestato dai nazisti nel 1943, viene torturato e poi internato nel campo di concentramento di Auschwitz, dove trascorre due anni.
Dopo il 1945 si trasferisce a Bruxelles ed esercita l’attività di scrittore,
collaborando anche alla radio e alla televisione. Muore suicida a Salisburgo nel 1978.
“Intellettuale a Auschwitz” è un libro algido, pesante come una pietra. Jean Améry non lo voleva scrivere, aspettò il 1964 e in tedesco il titolo originale è “Al di là della colpa e dell’espiazione".
"L’intellettuale" che scrive è Améry e anche tutti quelli che hanno a che fare con la cultura. Come possono sopravvivere nell’inferno del lager, senza libri, senza più riflessione e pensiero? Diventano carne e sangue, lavoro e poco cibo. Infatti nella prefazione del libro Améry scrive:
“Con questo libro non mi rivolgo ai miei compagni di sventura. Loro già sanno. Ciascuno di loro deve sopportare a proprio modo il peso di questa esperienza. Ai tedeschi invece, che nella loro schiacciante maggioranza non si sentono, o non si sentono più, responsabili degli atti al contempo più oscuri e più caratterizzanti nel Terzo Reich, spiegherei volentieri alcune circostanze che forse non sono state loro ancora rivelate”.
Quando si hanno come compagni solo il freddo, le fucilazioni, la fame, i morti, pensare diventa un lusso, alla faccia della banalità del male di Hannah Arendt.
“L’esperienza più atroce che un essere umano possa conservare in sé, anche solo le torture per tutti uguali, le torture tutte gratuite, arbitrarie, non c’è nessuno che ti può aiutare per farle smettere.”
Quando tutto questo sarà finito, rimarranno dunque la vendetta e il risentimento, perché i tedeschi hanno accettato tutto questo:
"i risentimenti sopravvivono perché nella vita pubblica della Germania occidentale restano attive personalità che furono vicine ai persecutori, perché, nonostante il prolungamento dei termini di prescrizione per gravi crimini di guerra, i criminali hanno buone possibilità di invecchiare rispettabilmente e di sopravvivere, trionfanti, a noi, come garantisce l’attività che svolsero nei loro giorni migliori”.
Una colpa collettiva della Germania che ha permesso tutto ciò, una macchia che non si potrà mai realmente estinguere.
Améry poi scriverà sull’invecchiare e anche un saggio sul marito di Madame Bovary. Non ce la faceva però: quel numero sulla mano lo perseguita, inutile credere di invecchiare naturalmente, quel numero marchiato per la vita:
“Sul mio avambraccio sinistro ho tatuato il numero di Auschwitz; si legge più in fretta del Pentateuco o del Talmud, eppure è più esaustivo”.
Si suicidò, come fece il nostro Primo Levi.
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