Intorno ai sette colli
- Autore: Julien Gracq
- Genere: Letteratura di viaggio
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2009
“Furto per furto, è più piacevole farsi derubare a Roma che altrove”.
Se lo ha detto un protagonista trasgressivo e indipendente della cultura europea del ‘900 come Julien Gracq, più che accettare la dichiarazione a scatola chiusa è il caso di andare a verificare le ragioni che l’hanno portato a quella considerazione. Le troviamo in un suggestivo resoconto di viaggio, erede quasi testuale del Grand Tour sette-ottocentesco in Italia di aristocratici e colti viaggiatori europei. Col titolo Intorno ai sette colli, il pamphlet è pubblicato della casa editrice Mattioli 1885 di Fidenza-Modena (140 pagine), a cura di Franco Leuzzi e con la presentazione di Andrea Vannicelli, docente di letteratura francese nei licei.
L’edizione risale all’ottobre 2009, a poco meno di due anni dalla morte dell’intellettuale nato sulla Loira nel 1910, all’anagrafe Louis Poirier. Di formazione stendhaliana-romantica, convertito al surrealismo dagli studi universitari nella École Normale, ha insegnato storia e geografia nelle superiori statali parigine fino al 1970. Contemporaneamente, pubblicava varie opere, con lo pseudonimo Julien Gracq, dal nome del protagonista de Il rosso e il nero di Stendhal e in ricordo dei fratelli Gracchi dell’antica Roma.
Si affermò a 28 anni col primo di una ventina di romanzi, Nel castello di Argot, proseguendo una carriera di saggista e romanziere molto apprezzata dai contemporanei e costellata di scelte sopra le righe. Il suo conflitto contro il conformismo culturale non conobbe pause, al pari della polemica nei confronti della critica e dei premi letterari. Nel 1951 destò scandalo il rifiuto della candidatura al prestigioso Goncourt, per il suo capolavoro Le rivage des Syrtes.
La vena polemica dello scrittore Julien Gracq si addolciva quando il prof. Louis Poirier entrava in contatto con la bellezza ed entrambi, l’autore e il letterato, diventavano “il romantico del Novecento in visita a Roma” per carpire il segreto del fascino esercitato su tutti dall’Urbe millenaria. All’inizio del 1967, tralasciata la strada del racconto, Gracq aveva intrapreso quasi esclusivamente quella del taccuino, del diario, del libro di memorie, costruito sugli appunti e riflessioni scaturiti dalle occasioni più diverse, spesso resoconti di viaggi.
Appartiene a questo segmento impressionistico il lavoro su Roma e altre località visitate nel 1976. La sensibilità lo portava a posare sul meraviglioso, come sul quotidiano e sul banale dell’Urbe, uno sguardo che trasfigurando quanto osservato gli regalava “un’apparenza magica”.
Vannicelli invita a considerare questo libretto sulle sue passeggiate nella Città Eterna, “un vero gioiellino di prosa francese contemporanea”.
Gracq godeva di Roma soprattutto a piedi, coglieva il confine tra il passato nobile e i giorni nostri (suoi), quello tra il sacro e il profano, il reale e surreale. Non si fermava al primo impatto, andava oltre l’imperfetto, il trascurato, il caotico e si apriva a una sequenza di suggestioni, di visioni, di sogni ad occhi aperti. Era attento a cogliere dietro le rovine, nella penombra di chiese spesso anonime, al di là del traffico prepotente, del chiasso e degli accenni di maleducazione, i segni di una grandiosità unica, di una magnificenza e di una dignità che lo appagavano.
Aspirava da anni a visitare la capitale del mondo antico e non gli era apparsa quella che si aspettava. Non era riuscito sulle prime a riconoscere nella Roma moderna la grandeur del passato, soffriva la sovrapposizione di epoche, stili, culture ed arti, ma Gracq riusciva a superare la delusione cogliendo l’immaginario in filigrana, sotto le rovine del tempo e i guasti della contemporaneità. A compiere il miracolo era la sua voglia di fantastico, di surreale, di suggestivo e di poetico.
Un esempio è l’accenno tollerante alla delinquenza, con tanta clemenza rispetto alla pericolosa criminalità percepita sui marciapiedi di New York e Chicago. A Roma, scrive, dove pure i borseggi si susseguono nell’arco di una giornata, non c’è luogo che ti metta in guardia, a disagio. “Ovunque gentilezza pacata e bighellonaggi innocenti”: il furto, la tangente, vengono esercitati con una “mezza cortesia evasiva”, che non rompe le regole sociali convenute. Ladri affabili, chiacchieroni, niente a che vedere coi sinistri fuorilegge per le strade della Grande Mela senza storia. Uno sguardo indulgente, tutto sommato e che sublimava la realtà.
Piazza Navona? Una vasca per bagni di folla, in coerenza con l’usanza antica di allargarla nei giorni di canicola. L’acqua del resto è una costante nelle pagine di Gracq. Delfini, tritoni, naiadi, vegliardi con la barba fluente, sguazzano, sputano, schizzano, vengono innaffiati e innaffiano, “menano nelle piazze un sabba acquatico inatteso”.
La città gli sembrava intimamente affascinante, nel contrasto tra i grandi viali e dei grandi corsi che s’irraggiano da enormi piazze e le piazzette non legate a una viabilità importante, dentro le quali si scivola improvvisamente. Per il passeggiatore solitario l’incanto urbano è dato dall’ingresso improvviso e immotivato in questi alveoli protetti, il cui accesso sembra un regalo.
Piazze, giardini, fontane, scorrere pagine tanto ispirate (chi ama Roma avrà provato sensazioni analoghe) evoca la musica straordinaria di Ottorino Respighi. La sua Trilogia romana, Le fontane (1916), I pini (1924), Le feste (1928), è la colonna sonora perfetta di questi appunti di viaggio.
Intorno ai sette colli
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