Konradin
- Autore: Italo Alighiero Chiusano
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: San Paolo
- Anno di pubblicazione: 2013
Questa biografia di Corradino di Svevia scritta da Italo Alighiero Chiusano ha l’ampio respiro di un’opera di invenzione e di poesia, pur nella sua fedeltà ai dati storici. Le pagine iniziali di “Konradin” (San Paolo Edizioni, 2013) si aprono su un ragazzo quattordicenne che vive, cresce, soffre nell’attesa di chissà quale nebuloso e sconvolgente avvenimento futuro: lontano dalla madre, che si è risposata e vive a Milano, Konrad è affidato alla sorveglianza dei due zii materni, Ludovico (violento e ottuso) ed Enrico (subdolo e vile), in un tetro castello della Baviera.
Corradino è l’ultimo erede della stirpe sveva: figlio di Corrado IV, nipote di quel Manfredi “biondo e bello” di cui scrisse Dante, viene educato nel mito della sua antica casata, con il miraggio che sappia meritatamente riportarla ai fasti trascorsi. Va quindi a caccia, compie esercizi ginnici, gioca a scacchi, studia le lingue classiche, presiede diete di principi: è un apprendista imperatore. Ha in effetti i capelli biondi e gli occhi azzurri degli avi, mani lunghe ed energiche "da futuro re", ma è anche un giovane appena sbocciato all’adolescenza, con i turbamenti propri di chi teme l’abbandono dell’infanzia.
Patisce la lontananza dalla madre, cui scrive lettere rancorose e appassionate, lasciando che l’amore spesso si tramuti in odio e sadico livore. Ama la pelle grinzosa della vecchia nutrice Marfrida, che sola gli ha dato le carezze e i baci negati alla sua infanzia dorata e solitaria. Si tormenta nel desiderio del corpo femminile, e nell’altro contrastante ma esaltato proposito di purezza e castità. Ha già molto sofferto, episodi oscuri e tragici come l’uxoricidio dello zio Ludovico, o un tentativo di avvelenamento messo in atto nei suoi confronti da Manfredi, hanno marchiato profondamente la sua psicologia, portata naturalmente alla malinconia e alla riflessione. Non si ribella neppure al sopruso di un matrimonio combinato con Sofia di Landsberg, sconosciuta bimbetta di otto anni, e con rassegnata amarezza così ne scrive alla madre:
“...non so nemmeno se assomigli più a un corvo o a una angelo, se ha il nasino ossuto o carnoso, la voce che graffia o che accarezza...E sì, madre, che prendevo molto sul serio il matrimonio, e volevo fare del mio, quando che fosse – ma non certo così presto – una cosa bella, vorrei quasi dire un’opera d’arte. Vale, mater, vale. E tantissime grazie.”
Sarà il nonno, Federico II redivivo, comparsogli davanti come deus ex machina e prezioso alter ego della coscienza, a scuoterlo dalla sua remissività, a provocarlo con le sue posizioni irridenti, con le sue violenze arroganti: il ragazzo Corradino protesta, sbraita, gli si oppone, ma alla fine agisce. Nei momenti cruciali delle scelte, Federico II appare al nipote, barbuto e poderoso, scrutandolo col suo unico occhio di un azzurro intenso: da tutti creduto sepolto, ma in realtà scampato alla morte con un sotterfugio, è tornato, vecchio ma indomito, per cercare nell’erede qualcosa di se stesso e richiamarlo all’impegno dovuto al suo nome.
I due svevi si fronteggiano in un continuo duello di idee e atteggiamenti: l’uno miscredente, carnale, feroce, l’altro pio, casto, tenero. Corradino è scisso tra ribellione e obbedienza:
“Vorrei staccarmi con la mente da Federico che in parte amo affascinato, in parte (temo maggiore) aborro come una continua violenza a tutto ciò che sono.”
Eppure l’avo Federico riconosce nel ragazzo troppo sensibile, troppo capace di leggergli nel pensiero, come tutti «i destinati a morte precoce», il continuatore della missione sveva di conquista:
“Decidi, Konrad, se dello Stato vuoi essere il reggitore o solo un bell’ornamento. Se la prima cosa, impara ad amare la durezza.”
E Corradino decide. Convoca la Dieta di Augusta e scende in Italia, a quindici anni, capo di un esercito che sogna di contendere al papa e a Carlo d’Angiò le terre che erano state degli Svevi.
La storia è nota: colpito dall’anatema papale, Corradino si ferma a Verona, Pavia, Pisa, Siena, raccogliendo vittorie e sconfitte, trionfi e tradimenti, fino alla defezione di molti principi tedeschi che l’avevano accompagnato.
Chiusano si muove in queste vicende con eleganza e fedeltà alla verità storica, regalandoci di suo non pochi personaggi e situazioni compiutamente credibili e riusciti. Come la figura di Lale, sposa vera seppure illegittima di Corradino, che il nonno gli ha donato in uno slancio di affetto sincero e di calcolo opportunistico, e che poi fa avvelenare per paura che distolga il nipote dai suoi doveri di futuro sovrano. Chiusano, sempre più a suo agio nella descrizione di caratteri e momenti delicati, ha agio in questa storia d’amore di rivelare tutte le sue doti di fine indagatore dei turbamenti adolescenziali, di pudori ed esaltazioni che mantengono sempre qualcosa di sacro e incorruttibile, a spregio di qualsiasi volgarità.
Privo della sua Lale, Corradino affronta con adulto coraggio e dignitosa compostezza sia la tragica battaglia di Tagliacozzo, sia la imprevista sconfitta, quindi il processo farsa e la decapitazione, dopo aver rifiutato la demoniaca tentazione offertagli dal nonno di una salvezza solitaria, di un tradimento meschino. E in queste ultime pagine, il sacrificio senz’altro cristiano, quasi messianico di Corradino, viene riconosciuto nella sua nobiltà anche dal nonno, Imperatore Federico II di Svevia:
“Sei molto, moltissimo diverso da me...però, sei uno Svevo anche tu... Vai in tutt’altra direzione, ma anche tu voli alto...di te anche i semplici serberanno ricordo.”
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