L’enigma dei Fenici
- Autore: Sabatino Moscati
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mondadori
Lo studio delle cosiddette "civiltà sepolte" è quanto mai affascinante; riporta al presente i sedimenti psichici che giacciono in noi, sia a livello individuale che collettivo, epico. Quanto ci siamo lasciati alle spalle in realtà non costituisce soltanto il passato, antefatto, continuità o discontinuità con l’oggi, ma, e la cosa diventa davvero interessante, può costituire una traccia da seguire nel futuro.
Tutto ciò è stato evidente e mi è balzato agli occhi quale considerazione finale dopo la lettura di un volume acquistato al mercatino dell’usato, luogo di chicche e rarità: L’enigma dei Fenici di Sabatino Moscati (Arnoldo Mondadori, 1983, pp. 234).
Lo scrittore è stato uno dei più eminenti accademici archeologi e orientalisti italiani e internazionali. Nel 1988 a Venezia, a palazzo Grassi, ha curato la mostra "I Fenici", visitata da 750.000 persone. La sua attività "sul campo" ha attraversato le coste del Mediterraneo da Israele a Tunisi, alla Sicilia e alla Sardegna. Egli sosteneva che l’archeologia è una scienza giovane e fragile, sempre pronto a rivedere tesi che si dimostravano superate, alla luce di nuovi studi.
Perché i Fenici costituiscono un enigma? Innanzi tutto non conosciamo la loro provenienza. Mancano i reperti. Lo stanziamento originario potrebbe essere stato nel deserto africano o nel Golfo Persico. Conosciamo lo sviluppo delle loro città stato nella zona costiera siriaco-palestinese; la più nordica è Hugarit, una delle più antiche città del mondo (VI millennio a.C.); la più a sud è Gaza, passando per Biblo, Tiro e Sidone, solo per nominare le più note.
Incerta è la datazione iniziale della loro misteriosa presenza, qualcuno addirittura ama retrodatarla in età neolitica, ma lo studioso non tiene conto di questa ipotesi non provata, sebbene non la scarti in modo categorico.
Di questo popolo abbiamo notizie dalla Bibbia, si tratta dei Cananei. Li caratterizza l’arte nel tingere i tessuti di rosso. Già nel terzo millennio a.C. nei testi accadici essi sono menzionati con il termine "Kinaknu" che significa "rosso porpora". Nei testi micenei preomerici essi sono chiamati "Po-ni-ki-jo", ugualmente indicante il rosso porpora, estratto da un crostaceo.
Il loro balzo in avanti espansionistico attraverso il mare è databile dal 1200 a.C., ovvero dall’inizio dell’età del ferro. È in tale stadio che viene da loro abbandonato il rito "Molk", ovvero il sacrificio umano dei fanciulli alle divinità. Usanza diffusa nel mondo antico, ricordiamo per inciso il sacrificio (evitato) di Isacco, inoltre il sacrificio (forse evitato) di Ifigenia, imposto per consentire alla flotta degli Achei di salpare verso Troia con il vento favorevole. Il superamento di un tale scoglio storico e psichico è una tappa essenziale nello sviluppo della coscienza umana della civiltà occidentale.
Per quanto riguarda invece i Cartaginesi, il rituale dell’uccisione dei bambini è ampiamente attestato dai santuari, “tofet”, ritrovati in tutte le città puniche situate nel Mediterraneo occidentale, in Spagna come in Africa, Sicilia e Sardegna, fino al primo secolo a.C.
Sempre sul finire del secondo millennio vediamo sorgere tra i Fenici il culto di Baal Hammon (signore) e della dea Tanit, poi divenuta Astarte e in seguito Afrodite. Un mix di civiltà maschile e matriarcale.
La conquista delle coste occidentali del Mediterraneo è databile dal IX secolo a. C. Ormai Fenici e Punici sono da considerarsi la continuità uno dell’altro. Maestri nella lavorazione dei metalli, oro, argento, rame, nella produzione di oggettistica nonché di gioielli, essi fondano le loro colonie inizialmente solo come piazzeforti necessarie agli scambi commerciali. Non si trattava di insediamenti di conquista del territorio altrui. Non nella prima lunga fase almeno. Moscati definisce un tale periodo come "imperialismo informale", teso agli scambi e non alla sottomissione dei popoli. Eppure nell’immaginario siamo propensi a considerare gli adoratori di Moloch come sanguinari. Conosciamo Cartagine in prevalenza attraverso la denigrazione di Cicerone. Nel terzo secolo a.C. Cartagine era divenuta la signora indiscussa dei mari. Del periodo "informale" abbiamo una bella testimonianza di Diodoro Siculo, ma ancor prima di Erodoto (V secolo a.C.), di cui Moscati riporta un ampio stralcio:
"Dopo essere giunti, sbarcano le mercanzie e le espongono in ordine sulla riva, poi tornano sulle loro imbarcazioni e fanno del fumo. Gl’indigeni vedono il fumo e, avvicinatisi al mare, collocano a fianco delle mercanzie dell’oro che offrono in cambio e si ritirano. I Cartaginesi ridiscendono e lo esaminano. Se giudicano che la quantità dell’oro corrisponde al valore delle mercanzie, lo prendono e se ne vanno, altrimenti tornano alle navi e attendono. Quelli, venendo di nuovo, aggiungono dell’oro finché essi non siano soddisfatti. Non si fanno reciprocamente alcun torto, gli uni non toccando l’oro prima che la quantità deposta sembri loro adeguata alle mercanzie, gli altri non toccando le mercanzie prima che quelli abbiano preso l’oro.”
Si noti la correttezza e l’accordo nel trattato. Sembra quasi un gioco “ai negozianti” tra bambini. Gli scambi sono assolutamente pacifici.
Accanto alle transazioni, abbiamo la diffusione della scrittura, la cui origine risale alla cultura anatolica e ugaritica, è il proto cananeo solo consonantico, come accade in tutte le lingue semitiche.
Nei millenni molte sono le commistioni tra culture, con la egizia, ma pure con la cipriota e greca e in seguito romana.
Gli stanziamenti fenicio-punici in Occidente divengono inevitabilmente stabili e di tipo coloniale, ma non aggressivi. Si tratta di genti che convivono con gli abitanti locali. I Cartaginesi sono in grado di creare una specie di "cortina di ferro" che, con piazzeforti difensive estremamente fortificate, tocca la Spagna, le coste africane da Capo Bon e sale per Pantelleria e Mozia (Sicilia) fino alla Sardegna (Tharros, Sulcis, Monte Sirai). Le fortificazioni sono imponenti: 5-7 metri di spessore, si ergevano torri anche di 17 metri in altezza. Al centro nel punto più elevato della città si trovava l’acropoli. La fortezza di Tharros non venne mai espugnata. I Cartaginesi l’abbandonarono quando non era più conveniente per loro. La "cortina" tagliava a metà il Mediterraneo. La parte orientale era lasciata agli altri popoli, Greci e Romani poi. Come una sorta di zona prestabilita di influenza. Restava comunque il collegamento con le città orientali, via via sempre più debole.
Annibale rompe questo equilibrio. Ricordiamo che l’impero romano si impone con ferro e fuoco e decade a causa del parassitismo di Roma nei confronti delle Province.
Un elemento geniale caratterizza l’arte fenicia e punica: la capacità di astrazione.
Nella scultura iconica il soggetto rappresentato, in genere una divinità con funzioni apotropaiche, protettive, diviene sempre meno importante; più che il destinatario acquista forza rappresentativa l’officiante, ritratto nell’atto offertorio. Lo stesso accade nell’arte greca, ma in quella punica c’è la prevalenza di elementi ornamentali, perfino stilizzati, a significare quanto la bellezza sia essenziale per se stessa. Concetto assolutamente moderno.
Il libro è correlato da una parte fotografica che emoziona. Le maschere irridenti impressionano per il loro sarcasmo. Le divinità sono parlanti, specie le protomi femminili dal sorriso enigmatico che richiamano La Gioconda, con le dovute differenze stilistiche ma con l’identico profondo richiamo a un Oltre che veglia e determina il nostro stare qui.
L'enigma dei fenici
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