L’eredità Ferramonti
- Autore: Gaetano Carlo Chelli
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Elliot
- Anno di pubblicazione: 2014
“Da Piazza di Ponte a Campo di Fiori, padron Gregorio Ferramonti godeva la notorietà e la considerazione di un uomo, che si ritiene quasi milionario”.
Il ricco bottegaio, ora in pensione, aveva costruito da sé la propria fortuna, alcuni vecchi rammentavano ancora Gregorio “cascherino” di Toto Setoli, un fornaio al Pellegrino, “che lo aveva raccolto per carità”. Presto il cascherino era passato garzone di banco per poi andare ad aprire un buco di bottega di fronte all’antico padrone rubandogli la clientela e facendogli fare una “figuraccia”. Da quel momento in poi la barca di padron Gregorio aveva sempre avuto il vento in poppa: Ferramonti aveva sposato la vedova del cameriere di un monsignore che gli aveva portato in dote dei capitali d’origine misteriosa e un figlio, nato dopo solo sette mesi di matrimonio, proprio mentre il fornaio “si slanciava nella grande industria, approvvigionando seminari, conventi, educandati e caserme”. Per decenni il forno Ferramonti
“aveva avuto un lavoro da sbalordire, conservando le sue apparenze modeste di bottega aperta nel cuore di un quartiere popolare”.
Poco dopo il 1871, quando Roma era divenuta Capitale del Regno d’Italia, il vedovo Ferramonti aveva deciso di vendere il forno concludendo un affare per lui vantaggioso. Era tramontata la speranza di vedere i figli succedergli nell’attività e dileguata la fantasticheria di fondare una dinastia di Ferramonti fornai. La verità era che padron Gregorio era “un padre disgraziatissimo”: Mario, il primogenito dai lineamenti delicati e aristocratici “un insieme di figura, di espressioni e di modi fatti apposta per accreditare le maldicenze corse sulla sua nascita”, era uno scavezzacollo che nuotava nei debiti. “Donnaiolo sfrenato”, Mario era capace di “ogni porcheria”. Anche Pippo il secondo rampollo di Gregorio era stato una delusione: con i tremila scudi in contanti della liquidazione paterna aveva avuto “la matta idea” di acquistare un negozio di ferrarecce a Sant’Eustachio sposando la figlia di un “ferrivecchi” Irene Carelli, femmina “sagacissima e abilissima”, sensuale e perversa disposta a qualsiasi “bassezza pur di condurre a buon fine i suoi disegni”. La terza figlia di Ferramonti, Teta, dopo aver rifiutato un partito d’oro, si era fatta rapire da Paolo Furlin, un impiegato a duecento lire mensili.
“Ferramonti ebbe a morirne d’un accidente. Consentì al matrimonio per riparare allo scandalo; ma giurò che non avrebbe fatto vedere alla figlia la croce di un centesimo”.
Ora in quell’Urbe allo stesso tempo papalina e monarchica, terreno di conquista “delle colonie buzzurre” dei piemontesi, si era formata in Gregorio Ferramonti “la più tranquilla esistenza di vecchio sornione”. A poco a poco, i rancori contro i figli che lo avevano abbandonato e offeso si erano placati trasformandosi in una specie di disprezzo sardonico che covava una vendetta indeterminata. L’ex fornaio rideva delle arie da signori prese da Mario, da Teta e anche da “quel bestione triviale di Pippo”. Il vecchio Ferramonti a chi avrebbe lasciato il denaro che continuava ad accumulare con un’ingordigia di avaro? Forse a quei “bravi ragazzi” dei suoi figli o avrebbe fatto qualche donazione a privati bisognosi?
“I curiosi restavano nel campo delle ipotesi campate in aria”.
L’incontro con la nuora Irene avrebbe dato una svolta inaspettata alla vita di Gregorio Ferramonti. Gaetano Carlo Chelli (1847 – 1907) scriveva nella breve nota introduttiva al volume pubblicato nel 1883:
“Ho intrapreso un’opera vasta di osservazione, nella quale i punti d’ombra e di luce si avvicendano naturalmente, come s’avvicendano nella battaglia umana, di cui tento ritrarre alcuni episodi”.
L’autore e giornalista toscano, sbarcato a Roma nel 1874, era venuto in contatto con i circoli liberali della capitale che gli avevano aperto le porte del Fanfulla, una delle più note testate di quel periodo. Da questo osservatorio privilegiato lo sguardo acuto dello scrittore aveva catturato i comportamenti dei protagonisti dell’”Italietta umbertina”, quella “vita romana” nella quale albergavano la peggiore corruttela e le speculazioni edilizie e finanziarie più sfrenate. È questo il palcoscenico attualissimo nel quale si muovono i personaggi del capolavoro di Chelli, un dramma nel quale domina
“l’arroganza del potere, la sete di denaro, la collusione tra uomini della politica e nuovi ricchi”
come scrive Riccardo Reim nella bella introduzione al volume intitolata Gaetano Carlo Chelli, romanziere di postuma fortuna. I figli di Ferramonti avevano nel sangue quell’”acre febbre della caccia al denaro” proprio in un momento cruciale nel quale “i grandi lavori per l’assetto della capitale avrebbero dato occasione a metter meglio le mani in pasta”. Sotto gli occhi disincantati di Chelli il popolino romano si era trasformato in borghesia media e piccola, dal volto feroce “che non conosce altre passioni che il denaro e la scalata sociale”. È proprio per questo che tutti i personaggi creati dallo scrittore (definito nel 1973 da Pasolini “dopo Verga e prima di Svevo, il più grande narratore italiano dell’Ottocento”) a iniziare dalla figura del padre–padrone Ferramonti non possono che essere negativi. Questa Roma moderna, “città di consumo” nella quale emerge il clan dei Ferramonti in lotta per un’eredità contesa, era stata elegantemente ricostruita nel 1976 da Mauro Bolognini nell’omonimo film interpretato da Burt Lancaster, Gigi Proietti e Dominique Sanda.
“Ferramonti come tutti i miserabili arricchiti navigando in acque poco limpide, conosceva gli uomini, non li stimava, e soprattutto ne diffidava”.
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