L’iris selvatico
- Autore: Louise Glück
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Il Saggiatore
- Anno di pubblicazione: 2021
Nel 2020 la poetessa Louise Glück riceve il premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione:
"Per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale".
Ha pubblicato dodici raccolte di poesie e due saggi, è accademica all’università di Yale. Si tratta di una voce autorevole, ma non sono i riconoscimenti, o non solo, a rendere poeta un poeta, quanto il farsi interprete di tutti, divenire universale. Anche l’universale non ha valenza quantitativa, numerica, ma rimanda ai grandi, eterni valori preservati nel cuore dell’uomo, alle problematiche legate all’essere, all’esserci, con il carico di inevitabile dolore che ciò comporta. Con una possibile liberazione dal dolore.
Nel 1993 Glück riceve il Premio Pulitzer con la raccolta The Wild Iris, L’iris selvatico. È su questo libro, pubblicato da il Saggiatore (2020, traduzione e postfazione di Massimo Bacigalupo, pp. 168) che voglio stendere un breve lusinghiero giudizio.
Giustamente Bacigalupo titola il suo saggio Teologia in giardino; infatti l’autrice rivela un’ansia metafisica e un bisogno conclamato di Dio che l’avvicina ai grandi romantici. Di essi sembra, in apparenza, perdere le certezze, la fusione immediata con il Divino, l’estasi conquistata e trattenuta per sempre. In molti punti fa parlare la creatura in modo critico, in altri è il Creatore a esprimersi, anche con riserve sul genere umano. Ne risulta un dialogo serrato che sviscera a fondo il dramma del nascere, del morire e sopravvivere, perire e durare.
Con il Romanticismo la poetessa condivide la visione panica, il sublime insito nella natura e la fusione con le creature vegetali. In particolare si identifica con i fiori. Iris, biancospino, viole, margherite, papaveri, cicoria, ranuncoli, trifoglio, ipomea (la campanella rampicante), rose, gigli e anche zizzania sono i protagonisti dei suoi versi, con la felice intuizione ed esperienza della platonica anima del mondo, tramite e ponte tra questo nostro mondo visibile e l’indicibile iperuranio, oltre la ragione discorsiva e oltre le esperienze fenomeniche. Ma il sentimento, misurato e mai traboccante, cesellato da un pensare continuo, sa cogliere l’appartenenza a quel mondo altro che è pure e necessariamente qui, immanente, specialmente nel giardino, nell’umiltà della terra. Ed è qui che l’artista ritrova l’Origine.
Perché l’iris selvatico? Il piccolo fiore azzurro nella sua grazia e modestia rappresenta l’immortalità. Glück lo umanizza, con vena surreale lo immagina sottoterra, trapassato o prima di germogliare? Con viva e piena consapevolezza! Si tratta di una visione ardita, ovviamente non attinta dal vissuto quotidiano, giunta all’autrice da profondità e altezze di grandi stati meditativi.
"È terribile sopravvivere / come coscienza / sepolta nella terra scura."
Aggiunge:
"Tu che non ricordi / passaggio dall’altro mondo / ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò / che ritorna dall’oblio ritorna / per trovare una voce.”
Basterebbero questi pochi versi per suscitare un’accelerazione del sangue, il desiderio di leggerla e berne la spiritualità. Parla con Dio, non di Dio, sebbene, e giustamente, ne percepisca il silenzio. Chiede:
"Sei stimolato dalla disperazione, il dolore / ti spinge a rivelare la tua natura? Questo pomeriggio, / nel mondo fisico al quale comunemente / partecipi con il tuo silenzio, ho scalato / la collinetta sopra i mirtilli selvatici, metafisicamente / scendendo.”
Nella irreperibilità di Dio ricorda Scoto Eriugena, il filosofo favorito di Borges, il quale scrisse che "Dio ignora se stesso nelle cose create".
Glück fa parlare Dio, a lungo, fino a riportare:
"Così vi ho dato carta e matita. / Vi ho dato penne fatte di giunchi / che io stesso raccolsi, di pomeriggio nei prati folti. / Vi dissi: scrivete la vostra storia.”
Viene affermata la funzione del poeta e dello scrittore, dell’artista in generale; la necessità del parlare alto, universale. L’artista è il tramite della Voce demonica e celeste, e anche il tentativo di trovare Dio, che parla in loro e afferma sommessamente:
“La mia tenerezza / dovrebbe esservi chiara / nella brezza della sera d’estate / e nelle parole che diventano / la vostra stessa risposta.”
Importante nel libro è la concezione della Parusia, il grande ritorno del tutto, la cui metafora è l’infanzia. Saper tornare.
Nel finale abbiamo un giglio d’oro che muore; è disperato, invoca il padre, così simile al grande grido cristico: "Padre, perché mi hai abbandonato?". Di fronte alla disperazione ultima, anzi penultima, facciamo silenzio. Ma l’ultima poesia dedicata ai gigli bianchi recupera un’eternità che non appartiene al tempo:
“Zitto, amore. Non mi importa / quante estati vivo per ritornare: / in quest’unica estate siamo entrati nell’eternità.”
Il libro si snoda su una doppia scansione temporale, dal mattino al vespro e dall’inizio della primavera all’autunno. Simboli del nostro apparire e sparire. Commuove. Vi ritrovo il sentimento dell’eternità, uno stato di coscienza, espresso dal poeta triestino Claudio Grisancich in una sua breve poesia dialettale, in cui l’eternità è fotografata dal bambino che in classe scrive le sue prime parole con il pennino:
"Sui quaderni i penini / gratava pian la carta / ... / el tempo se fermava".
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