L’onda dell’incrociatore
- Autore: Pier Antonio Quarantotti Gambini
- Categoria: Narrativa Italiana
Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è una tappa essenziale nella vita di ciascuno. È sempre uno strappo e, come tale, segnato da patemi ed eventi più o meno drammatici. L’onda dell’incrociatore di Pier Antonio Quarantotti Gambini (ultima edizione: Mondadori, 2019), capolavoro del Bildungsroman (romanzo di formazione), fissa il passaggio di crescita in un’estate memorabile, in un giorno epocale.
Siamo nel porto di Trieste, è il 1935. Quattro incrociatori riportano in patria i reduci dalla guerra d’Africa. La città festeggia. Lo scenario storico è soltanto la cornice, altri festeggiamenti erotico-amorosi conquistano la scena. Lidia, ragazzina ansiosa di crescere e diventare donna, vive la seduzione, il suo primo amore, attratta dal bel canottiere Enea, fatuo e vanitoso, prigioniero dei suoi sogni di gloria agonistica.
Lidia è una fanciulla "selvaggia", nel senso benevolo della sua capacità di abbandonarsi totalmente alle sensazioni. Non sono da meno i suoi due amichetti di infanzia, il fratellastro Berto e Ario, un figlio senza padre, con una madre dura e poco affettiva. Ario è innamorato di lei. Gli istinti del piccolo trio si esprimono naturalmente, senza remore o sensi di colpa. Sono colorati di gelosia e anche di sadismo, infatti la bambina viene picchiata nuda, distesa su una lamiera sotto il sole cocente, dai due monellastri. È il maschio a farla da padrone, la donna è sottomessa sebbene fiera ed è l’antica seduttrice, l’eterna Eva; gioca a farsi desiderare, si spoglia e si rivela a entrambi, soddisfacendo il narcisismo con innocenza. Ma i due amici quell’estate sono ormai ex, respinti per il bellimbusto.
I maschi escogitano uno scherzo, l’affondamento di un’imbarcazione che credevano vuota, ma non è così; lo scherzo diventa una tragedia mortale, fatale e scioccante. La vittima è un povero alpino, giunto a Trieste per i festeggiamenti…
Quarantotti Gambini procede nel racconto con limpidezza tutta triestina, secondo l’”azzurrità” di Saba, suo amico fraterno (“Trieste era azzurra” dice Saba ai “vociani” fiorentini, che non lo comprendono). La descrizione dei fatti e dell’ambiente cammina in parallelo con i moti interiori; il mondo esterno è simbolo e metafora degli accadimenti psichici. L’autore gioca con le parole, introducendo il lettore nell’universo marinaro con termini tecnici, elementi coreografici favolosi, che trasportano in una realtà quasi onirica. Uno di questi è "calcio", o “caìcio”, una piccola imbarcazione a remi. Accade un po’ come accade con l’iper realismo in pittura.
Siamo nel “Mandracchio”, insenatura, porticciolo sulle "rive”; è casa per i giovani protagonisti. Nelle diverse stagioni cambiano i colori; il mare più bello è in settembre.
L’immagine dell’onda rappresenta le emozioni travolgenti e ingovernabili, almeno in quell’età verde. Forse sono sempre ingovernabili, sembra suggerire lo scrittore, dato che gli adulti non ne sono affatto fuori, anzi. La madre di Ario, amante di Enea, della nuova giovane rivale afferma con cinismo e invidia: "diventerà troia".
Il padre di Lidia, orco, con la scusa di controllare la verginità della figlia, ne ha violato l’intimità, permettendosi una visita da lui ritenuta lecita. Siamo vicinissimi all’incesto:
"L’uomo, imponendo di nuovo a Berto di avvicinarsi con la candela, le mise subito le mani tra le ginocchia. Lidia non reagì, lasciò fare; anzi, appena toccata, sembrò a Berto che schiudesse le cosce quasi da sola”.
L’erotismo senza veli che attraversa le pagine è una verità buttata in faccia a tutti i perbenismi. Mai morboso, è grande fotografia dell’anima svelata.
Ario resterà segnato per sempre dalla morte, capitata quel giorno come un fulmine, neppure sospettata, così congiunta al vitalismo senza freni che gli scorre nelle vene. Affondare una barca non doveva significare togliere la vita a un uomo. Il fato non è nelle nostre mani, nonostante il nostro (parziale) libero arbitrio. Nella mitologia greca anche il grande Zeus ne è soggetto e non può mutarlo.
"Mentre il calcio sobbalzava sulle ultime ondate, scorse, vicino, un cappello che galleggiava con la cuba all’ingiù.
«L’alpino!» pensò, e gli sembrò di rivederlo seduto sul bordo con la bisaccia al fianco e il fiasco in mano. «Era dunque lui, dentro. Non era andato via come credevamo. […] Ebbe un brivido, riudendo quell’ululato. «Sono un assassino lo stesso», pensò. «Un assassino». E afferrò i remi per lasciare subito quel posto.
Il cappello, urtato dal caìcio, si riempì d’acqua con un piccolo gorgoglìo. Poi rapidamente affondò.”
Un cappello-cadavere, l’ultima metafora, segno indelebile per la coscienza.
Il libro, pubblicato da Einaudi nel 1947, vinse il premio Bagutta nel 1948. Ha conosciuto svariate edizioni. La versione cinematografica di Claude Autant-Lara è del 1960, con il titolo Les regates de San Francisco.
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