Fenice Iblea
- Autore: Paola Maria Liotta
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2024
La storia della poetessa umanista Beatrice Calvo di Avola del XVI secolo, soprannominata Fenice Iblea, ha da sempre affascinato Paola Maria Liotta: ha cercato i suoi scritti, le sue tracce, la documentazione storica della sua vita e delle sue opere. La maggior parte di esse, tracce di riflesso, confluirono e sono da dedurre dagli scritti del celebre genitore Michele Calvo Salonia, noto protomedico e filosofo, esponente dell’aristotelismo cinquecentesco. Fenice Iblea, appellativo conferito a Beatrice dai contemporanei del suo tempo, è stato scelto dalla nostra autrice come titolo del suo romanzo; non vi sono parole più adatte che possano celebrare le qualità poetiche e intellettuali di una giovanissima ragazza del sedicesimo secolo.
Paola Maria Liotta, siciliana, è docente di materie letterarie e latino ad Avola, dove risiede, ha una profonda passione per la scrittura e Fenice Iblea (Ianieri Edizioni, 2024) è il suo settimo romanzo.
Beatrice nacque all’incirca nella metà del Cinquecento e morì all’età di trentaquattro anni, la maggior parte vissuti come superiora nel Monastero dei Benedettini. Dagli accurati studi sugli scritti del padre è posto in evidenza il vissuto familiare di Beatrice e quanto lei stessa esaltasse le doti umane e intellettuali dell’illustre genitore. L’unico suo scritto, scrive nelle note l’autrice, è composto in latino, l’Inedito, ed è un manoscritto conservato nella Biblioteca Comunale di Palermo.
Beatrice, figlia del primo dotto della città, aveva un’aura speciale per contegno, bellezza ed erudizione. Assai graziosa, sapeva ricamate, leggere, scrivere, cantare e disegnare; quando parlava sembrava un angelo del Paradiso, “le sue maniere erano languide e tutte di poesia intrise”. Pochi all’epoca davano alle figlie la possibilità di studiare, si preferiva darle presto in sposa. Beatrice dopo le ore di studio di filosofia (i classici greci e latini che erano il suo riferimento) si dedicava alle letture dei Vangeli, dei suoi libri preferiti sulle leggende dell’Isola, la Fata Morgana, e la fede era diventata la sua migliore alleata: confidava nel potere salvifico della preghiera.
La sua storia esalta la sua bellezza d’animo e di intelletto, il suo profondo amore per la famiglia e viene narrata sullo sfondo di vicende di fantasia e di fatti realmente accaduti. Beatrice, chiamata anche Bice e Bea, era ospite nella casa in campagna della sua amica di giochi Leonora, all’inizio dell’estate del 1574 nella Val di Noto, dell’amico d’infanzia del padre. La morte della madre Angela aveva lasciato un vuoto d’affetto in Bice e il padre, pur di alleviarla dal dolore, decise di allontanarla per un po’ di tempo dalla casa familiare. Somigliava alla madre, sembrava esserne il ritratto: i suoi occhi di azzurro trasparente e le chiome bionde del colore del grano sembravano “essere un lascito di un avo normanno”.
In alcuni momenti Leonora sentiva la sua amica lontana; i suoi occhi vagavano per l’orizzonte, “in un suo altrove”. Bice e Leonora erano molto affiatate, l’una l’ombra dell’altra, c’era tra loro consonanza di idee
Le univa un legame così forte, intenso che nessuno le avrebbe mai potuto separarle. Non era forse l’amicizia il balsamo migliore per il mal di cuore, per tutti i mali della vita?
Leonora era felice nel vedere il viso angelico della amica rischiararsi: era il segnale che la tristezza si stava allontanando da lei. Beatrice ricordava gli abbracci della madre, le sue braccia morbide e profumate e il silenzio dal giorno della sua scomparsa; non si era udita più una voce, una risata.
Nei giorni di un’estate calda vissuta nella leggerezza, giunse la drammatica notizia delle flotte dei turchi al largo di Siracusa; bisognava abbandonare le proprie case e dirigersi verso Noto, le cui mura poderose li avrebbero difesi in attesa della cavalleria. Ne scaturisce un susseguirsi di vicende per la nostra giovane Bice, che tra la sofferenza per la perdita della madre, l’arrivo dei saraceni e di misteriosi signori, non smise di soccorrere i malati e di donare una buona parola, riponendo speranza e fiducia nel Signore.
Preziosa e dolce come un germoglio del Paradiso, che ne sarebbe stato di lei un giorno?
Beatrice continuò a coltivare la poesia e i beni dello Spirito anche quando si ritirò nel convento della Santissima Annunziata, offrendo aiuto nell’insegnamento del ricamo e cucito alle giovani donne bisognose.
Fenice Iblea è un pregevole ritratto di una donna salvata dall’oblio del tempo, di una poetessa ai margini della storia dimenticata, che rinasce a nuova luce nella nostra memoria letteraria con le parole dell’autrice, che ne ha voluto fermamente ritrovare le sue delicate vestigia.
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