La Champagne italiana. Arditi e Curzio Malaparte in Francia
- Autore: Filippo Cappellano, Basilio Di Martino, Paolo Gaspari
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2019
Che fortuna per le forze dell’Intesa che Germania e Austria-Ungheria non avessero un Napoleone tra i loro generali, negli ultimi anni del primo conflitto mondiale. E che valore hanno dimostrato i nostri soldati impegnati sulle delicate linee dell’Ardre, nell’estate 1918, contro le agguerrite armate del kaiser.
Lo sviluppo della prima considerazione, con un quadro dettagliato della partecipazione italiana allo sforzo bellico alleato sul fronte occidentale negli ultimi mesi della Grande Guerra, è tra i contributi di questo volume Gaspari, marchio eccellente dell’editoria specializzata nella storia militare e nei due conflitti del Novecento. La Champagne italiana. Arditi e Curzio Malaparte in Francia è stato pubblicato quattro anni fa (2019, Udine, 128 pagine), nell’ampio formato 21x26 cm della collana La storia raccontata e illustrata e con il caratteristico, sontuoso corredo di decine e decine di fotografie, grandi e piccole e di cartine in bianco e nero e a colori. Tre gli autori, storiografi di provata efficacia: due ufficiali superiori, Filippo Cappellano, Basilio Di Martino e l’editore-ricercatore Paolo Gaspari.
Gestazione lunga e articolata per questa ricerca storica, che sviluppa due focus. Uno, sulle truppe d’assalto, a cura del generale del Genio Aeronautico Di Martino e del colonnello Cappellano, capo dell’Ufficio Storico dell’Esercito. L’altro, a firma di Gaspari, si sofferma su Curzio Malaparte e sulle battaglie del Corpo d’armata Albricci. Di rilievo la collaborazione della Biblioteca Lazzerini di Prato per gli scritti di Malaparte. Il prof. Paolo Pozzato ha reperito e tradotto testi tedeschi e inglesi introvabili in Italia. Il prof. Alberto Monticone ha prestato il proprio rigore scientifico. Lo storico Alberto Caselli Lapeschi ha verificato incongruenze e imprecisioni.
In appendice, cenni sulla costituzione di un battaglione italiano di fanteria e sui reparti d’assalto nel 1918 (gli Arditi), precedono l’ordine di schieramento delle forze opposte nella seconda battaglia della Marna, nel luglio di quell’anno: i Gruppi di Armate del Kronprintz contro le forze alleate del centro, tra le quali il II Corpo d’armata italiano, schierato a protezione di una profonda insaccatura del fronte in direzione di Parigi.
Oltre 25mila uomini, al comando del tenente generale gallaratese Alberico Albricci: 3ª Divisione (Brigate Napoli e Salerno), 8ª Divisione (Brigata Brescia e la Alpi al comando del col. Giuseppe Garibaldi), il II Reparto d’assalto, due squadroni del Reggimento Cavalleggeri di Lodi, artiglieria e unità minori.
Era la Friedensturm, l’ultima offensiva tedesca “per la pace”. Il 15 luglio, trenta divisioni germaniche attaccarono nel settore di Reims tre armate francesi, truppe Usa, britanniche e italiane. I nostri, pur rappresentando l’uno per cento delle truppe alleate, svilupparono un enorme impegno militare, prima sull’Ardre, a Bligny, poi sull’Aisne, allo Chemin des Dames, fino alla fine della guerra, cinque mesi dopo.
Si diceva della lezione di Napoleone, che insisteva nell’azione per linee interne (attaccare forze nemiche separate), ma sarebbe bastato ricordare il principio del primo von Moltke: marciare separati per colpire uniti.
Dopo la positiva collaborazione austro-tedesca a Caporetto, le potenze centrali avrebbero dovuto unificare un contingente per sconfiggere l’Italia nella primavera 1918 e poi rivolgere tutte le forze contro gli anglo francesi. Gli austriaci avevano almeno 50 divisioni di prim’ordine, che con 6mila pezzi di artiglieria avrebbero potuto raggiungere le 217 tedesche sul fronte francese e abbattersi sul nemico prima dell’arrivo dei milioni di soldati americani. I due imperi continuarono invece a fare ciascuno la propria guerra, l’Austria convinta di mettere da sola in ginocchio l’Italia, la Germania illusa che la nuova azione delle sturmtruppen, non più a massa ma diradate e meno vulnerabili, avrebbe consentito di riprendere la guerra di movimento.
Nel cimitero militare italiano di Bligny, tra Chateau Thierry e Reims, riposano quasi 5mila nostri caduti (1366 ignoti). Sul fronte occidentale, nella durissima battaglia di contenimento combatterono e morirono più italiani dei francesi e inglesi impiegati e caduti sul Piave, Grappa, Altipiani. A nessuno storico verrebbe in mente di sostenere la “ridicola ipotesi” di una Francia salvata dall’intervento del corpo d’armata del gen. Albricci, tuttavia è radicata nell’opinione comune:
L’idea che le truppe inglesi e francesi, schierate sul fronte italo austriaco, possano avere evitato il tracollo finale dell’esercito italiano. Viene perfino accreditata da qualche storico poco avvertito o in malafede. Questo perché il sentimento della guerra dipende moltissimo da come la guerra viene raccontata. L’Italia vinse la guerra sui campi di battaglia, ma perse, clamorosamente, quella delle parole.
Nel libro ricorre spesso Curzio Malaparte. In quei mesi del 1918, il futuro scrittore era il sottotenente diciannovenne Kurt Suckert, al comando di una sezione di lanciafiamme, specialità della fanteria d’assalto.
Il reparto usciva dalle trincee tra i primi, per investire con gli appostamenti protetti, dirigendo i getti di fuoco verso le feritoie strette, altrimenti inattaccabili. Arma terribile, anche per chi la usava, però. L’operatore montava il serbatoio di cherosene sulle spalle, l’ingombro impacciava i movimenti e bastava una scintilla per trasformare apparato e uomo in una palla di fuoco.
Efficaci e terribili, le sezioni lanciafiamme diventavano bersagli prioritari per gli avversari. Se fatti prigionieri, i flammieri non avevano scampo, erano uccisi sul posto.
Inoltre, i getti di fuoco avevano una portata limitata e questo obbligava a serrare le distanze per un’azione efficace.
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