La capanna dello zio Tom
- Autore: Harriet Beecher Stowe
- Genere: Classici
“Ho combinato di vendere Tom”.
“Tom! Il nostro Tom? Così buono, così fedele! Che ti serve da quand’eri bambino! Oh Arthur, e tu gli avevi perfino promesso la libertà, gliene abbiamo parlato entrambi tante e tante volte!”.
Nello Stato del Kentucky della prima metà del XVIII Secolo dove vigeva “la più mite forma di schiavitù”, Mister Shelby era stato costretto a vendere un “intelligente bene mobile”. Tom era lo schiavo più assennato e devoto della piantagione, dalla fede incrollabile nella Divina Provvidenza. Insieme a zio Tom, una sorta di capo indiscusso della comunità di colore che viveva nella tenuta gravata da debiti di Shelby “un vero gentiluomo”, era stato venduto anche il piccolo Harry, il figlio mulatto di Eliza e George Harris. Haley, il losco e volgare mercante di schiavi era pronto a trascinare il braccio destro di Shelby e il piccolo Harry con sé per condurli al Sud “voi del Kentucky li viziate, i vostri negri. Avete buone intenzioni, ma non gli fate un piacere, dopotutto”. Tom si era rimesso alla volontà dell’ex padrone e si era rassegnato ad abbandonare la sua capanna, “un’abitazione di tronchi d’albero”, costruita accanto alla casa padronale, a lasciare per sempre sua moglie, zia Chloe, brava capocuoca dotata di “un caparbio senso di giustizia” e i loro figli. Eliza invece aveva deciso di fuggire insieme al suo bambino, atterrita al solo pensiero di perderlo. La ragazza era consapevole del rischio che stava correndo ma più forte era stato l’amore materno, “esaltato fino alla frenesia dall’incombere di un pericolo orrendo”, per non finire tra le mani del “mercante di anime”. Mentre madre e figlio scappavano a piedi verso il Nord America e verso la salvezza, zio Tom iniziava un viaggio verso l’ignoto, “con due pesanti ferri ai piedi”. Tom, dotato dalla natura di profondo senso morale e di una larghezza di mente superiore a quella dei suoi compagni, oltre che di una migliore educazione, considerato come una specie di “Ministro di Dio” stava per entrare nella tribù degli “scomparsi”.
“A ogni modo, farò del mio meglio per trovare a Tom una buona cuccia; e quanto a me, non abbia paura, non lo maltratterò di certo. Se c’è una cosa di cui ringrazio Dio, è che non sono mai crudele per niente”.
Nel 1852 La capanna dello zio Tom (titolo originale del volume Uncle Tom’s Cabin, or Negro Life in The Slave States of America, Edizione Rizzoli 2013, traduzione di Beatrice Boffito) fu pubblicato a puntate sul National Era, un giornale di Washington di impronta abolizionista. Il romanzo, che ebbe un successo immediato, era redatto da Harriet Beecher Stowe (1822 – 1896), settima figlia di un ministro calvinista, che aveva scoperto l’esistenza della schiavitù a Cincinnati nell’Ohio città nella quale la sua famiglia si era trasferita nel 1832. Il volume, attraverso una scrittura arcaica ma ancora efficace, racconta una verità spietata che era pratica quotidiana in quell’America dell’Ottocento prima dello scoppio della Guerra Civile profondamente divisa tra Nord e Sud. Due diverse visioni della vita, due opposti sistemi economici e in mezzo a tutto ciò la popolazione afroamericana che avrebbe dovuto attendere il 1865 per vedere sciogliere le sue catene. Con la vittoria degli abolizionisti del Nord al termine della Guerra di Secessione nell’America del Presidente Abramo Lincoln, la schiavitù sarebbe diventata fuorilegge. Di tutto quel dolore e di quella crudeltà, grazie alla bravura dell’autrice, Tom è il simbolo immortale di tutti gli oppressi.
“Sono nelle mani del Signore, niente mi può capitare che Lui non voglia. Di questo lo devo ringraziare. Sono stato venduto e mandato al Sud io, non tu o i bambini. Qui voi siete al sicuro; qualunque cosa avvenga non toccherà che a me, e il Signore mi aiuterà: si mi aiuterà!”.
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Letto quando ero bambina, la storia dello zio Tom mi commuove ancora. E’ vero che il modo di raccontare è arcaico, certe situazioni sono incredibili, ma il contenuto fa indignare e riflettere se si pensa che alcune situazioni ancora oggi sono ben lungi dall’essere risolte.