La casa del Balambaràs
- Autore: Franca Zoccoli
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2016
“Una famiglia in Etiopia al tempo dell’Impero Italiano”, recita il sottotitolo di “La casa del Balambaràs”, questo racconto pubblico e privato, di grande intensità, che la storica e critica d’arte Franca Zoccoli, oggi ultraottantenne, scrive sollecitata da uno dei suoi nipoti, per raccontare nel dettaglio i cinque anni che aveva trascorso con la famiglia nell’Africa italiana, ad Addis Abeba, tra il 1937 e il forzato rientro nel gennaio del 1943.
Il libro è diviso in cinque lunghi e dettagliati capitoli, preceduti da titoli che riassumono quanto l’autrice ci sta per raccontare.
Quando partono per l’avventura africana, Manlio Zoccoli e sua moglie Tilde Colalucci hanno poco più di trenta anni, e tre figli: Franca ha sette anni, Giovanni cinque, Simonetta è appena nata; con loro parte la tata toscana, la ventenne Lisina, insostituibile aiuto per l’intera famiglia che dovrà districarsi fra difficoltà e ostacoli. Manlio, un uomo bello e pieno di fascino, è un ingegnere specializzato in ponti e strade, convinto che l’avventura in Etiopia, dove gli italiani costruiranno strutture e intere città, gli consentirà lauti guadagni e grandi soddisfazioni morali. La moglie Tilde, laureata ma decisa a seguire il marito dedicandosi interamente alla famiglia, è una “donna di ferro, sia pure rivestita di velluto”, e prenderà su di sé tutte le difficoltà che la giovane famiglia incontra in un luogo ancora fortemente organizzato in modo primitivo, dove i coloni italiani devono farsi accettare. Creerà una società di borghesi italiani che conducono una esistenza fatta di incontri, cene, cinema, nei nuovi locali appena costruiti - come la sala Cinque maggio, riservato ai soli ai soli “nazionali” - balli in abito da sera al Circolo, dove si sfoggiano gioielli preziosi, cavalcate o partite a bridge, passatempo obbligatorio.
In casa c’era una grande radio Magneti Marelli, e molti libri, tra i quali “L’amante di Lady Chatterley”, proibito in Italia e letto in francese, e le fiabe per i bambini: la favorita, “La Bella addormentata nel bosco”. La casa rifletteva lo spirito dei tempi; una vita austera, niente sprechi, molto riuso di oggetti, l’aiuto di un domestico di colore, indigeno, come Franca Zoccoli ricorda si dicesse allora - oggi si preferirebbe il termine nativo.
I bambini andavano a scuola, anche se si tendeva ad accorciare i tempi di apprendimento anticipando l’età scolare, e si divertivano nel giardino pieno di animali esotici come marabù, camaleonte, facocero, gattopardo, cicogna, la scimmia Bacò, che si alternarono in casa Zoccoli, mentre gli insetti tempestavano i bambini con i loro morsi: pulci, zecche, cavallette da cui ci si difendeva cospargendo di petrolio i pavimenti di legno.
Il quotidiano abbastanza tranquillo veniva interrotto da spericolati viaggi che l’ingegnere Manlio, “futurista”, spirito progressivo e avventuroso, proponeva a moglie e figli per interrompere la routine: le visite ai lontani cantieri, attraverso strade impervie e pericolose, che sconsigliate dai più saggi dei suoi collaboratori, davano al progettista la soddisfazione di mostrare la grandiosità delle realizzazioni italiane in terra d’Africa. I coniugi Zoccoli non erano fascisti militanti, erano anzi colti e pieni di ironia, tuttavia credevano davvero di costruire un futuro radioso per loro e per i propri figli, che volevano mettere a parte di tale luminoso progetto: eccoli tutti su un grande fuoristrada, in partenza per Lekemti, con un solo autista, circondati da altissime montagne, da euforbie gigantesche a forma di candelabro, pareti di roccia a strapiombo, con la paura di essere assaliti dai briganti, per giungere dopo un viaggio estenuante e rigorosamente senza soste, troppo pericolose, al quinto cantiere, pieno di operai alloggiati in capanne e baracche, mentre gli uomini del luogo vivevano nei classici tucul. “Una villeggiatura estrema”, dunque, proposta dal capo famiglia e in fondo apprezzata da tutti, compresa la domestica Lisina, e dai bambini, che potevano divertirsi ad impastare pizza nel grande forno, o ad improvvisarsi fabbri incantati dalla enorme fucina incandescente.
L’ avventura africana viene interrotta una prima volta quando Tilde è costretta a rientrare in Italia, per la sopravvenuta malattia del padre: porterà con sé la piccola Franca in un viaggio per mare dal lusso indimenticabile, suite di prima classe sul piroscafo che le riporta in Italia, in puro stile anni Trenta, compresi l’abito a sirena della mamma e il corteggiatore durante la traversata; ben diverso sarà invece il viaggio di forzato ritorno definitivo dopo lo scoppio della guerra e la repentina perdita delle colonie, mentre avanzano le truppe britanniche che sostengono il Negus spodestato dagli italiani; nel libro viene raccontata la morte dolorosa del Duca Amedeo d’Aosta, bella figura di soldato e di uomo, ammalatosi di tubercolosi mentre era prigioniero degli inglesi in Kenia. Anche gli italiani presenti nelle terre africane, saranno prima prigionieri, poi forzatamente rimpatriati su due navi, Duilio e Giulio Cesare, appositamente modificate per ospitare le migliaia di profughi, soprattutto donne e bambini. Le Navi bianche, con tanto di enormi croci rosse per la paura delle bombe nemiche, porteranno il loro carico dolente in un lungo periplo dell’Africa, data la chiusura del Canale di Suez, per oltre quaranta giorni: in un clima di sconfitta e di nostalgia, i viaggiatori saranno tempestati dalla propaganda di regime, ormai in crisi profondissima, costretti ad ascoltare quando non a cantare canzoni bruttissime, dalla retorica insopportabile, i cui testi la scrittrice fedelmente riporta... dalla Saga di Giarabub a La canzone dei sommergibili:
“È così che vive il marinar / nel profondo cor / del sonante mar /del nemico e dell’avversità /se ne infischia perché sa / che vincerà”.
Franca Zoccoli ci regala un affresco intimo della sua famiglia, dei genitori, fratelli, nonni, amici cari, colti nell’euforia di un mondo che sembra promettere molto e che si rivelerà invece un flop: i sogni del padre si infrangeranno sui muri della Storia, che riserva all’Italia, che pur aveva meritato nelle terre conquistate, costruendo strade, ponti, edifici, ferrovie, infrastrutture, malgrado le bombe e i gas tossici, che non vanno mai dimenticati, un destino di sconfitta per i suoi uomini che si erano sacrificati per un ideale che consideravano collettivo. Lo stesso Manlio Zoccoli muore precocemente, poco più che quarantenne. La figlia che ne racconta dopo tanti anni la storia, lo fa con una sorta di tenerezza nel ricordare episodi grandi e piccoli, pezzi di felicità, angosce, paure, speranze, comuni a tanti Italiani che avevano creduto in un sogno senza reali fondamenta e che comunque avevano messo in gioco la vita loro e quella dei loro cari. Lia, la quartogenita degli Zoccoli, verrà concepita proprio nel giorno della dichiarazione di guerra.
Interessante il libro dal punto di vista linguistico: la scrittrice infatti fa continui raffronti su quel che si credeva e si usava dire e fare in quegli anni, ormai lontanissimi, con elegante ironia: oggetti e modi di dire che ricordo dalla mia infanzia, il negozio Zingone, l’uovo sbattuto col caffè, l’abbonamento alle riviste Domus e Casabella, il “Talismano della felicità”, il celebre libro di ricette, i dischi della Voce del Padrone per fare “quattro salti in famiglia” “la coda è la più dura da scorticare”, la “Perfida Albione”, “andare in villeggiatura”, il canto
“Sole che sorgi, libero e giocondo, sul colle nostro i tuoi cavalli doma”
che negli anni Cinquanta, a fascismo finito, ancora si imparava nella scuola elementare. Nel libro non mancano disegni, di Cecilia Avallone, che in modo semplice illustrano, con mappe e schizzi, la collocazione geografica di luoghi ormai quasi scomparsi dalla memoria, per chi non frequenta a Roma il Quartiere africano: Gondar, Dire Daua, Asmara, Addis Abeba, Gibuti.
Sono grata a Franca Zoccoli per averci raccontato, attraverso la sua storia personale, un brano di vita vissuta secondo il metodo della nouvelle histoire che, come insegnano i francesi, non è solo il racconto degli intrecci politici e bellici, ma
“la cultura materiale, il vissuto giornaliero delle persone”
e ha saputo farlo, come scrive nella sua prefazione lo storico Giordano Bruno Guerri, perché questo libro
“sembra scritto da una bambina. Anche se si capisce presto che quella bambina è cresciuta, tanto, e che rivede se sessa con gli occhi del ricordo: era un giorno del novembre 1937…”
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