La figlia perduta
- Autore: Gill Paul
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Newton Compton
- Anno di pubblicazione: 2019
“La figlia perduta” (Newton Compton 2019, titolo originale "The Lost Daughter", traduzione di Francesca Campisi) è il nuovo romanzo della scrittrice Gill Paul nata e cresciuta in Scozia, laureata in Medicina all’Università di Glasgow e in Letteratura inglese e Storia, già autrice di saggi e romanzi tra i quali “La moglie segreta” (Newton Compton 2017).
C’era tanto sangue. Era proprio tanto.
Sydney, Australia, ottobre 1973. Il padre di Val Doyle, Irwin Scott, di origine russa, affetto da demenza senile, ricoverato presso una casa di riposo, continuava a ripetere frasi che si riferivano a un episodio cruento avvenuto in passato, del quale l’anziano uomo diceva: “Non l’ho uccisa”. Sua figlia Val, che non vedeva il padre da ben diciassette anni, cioè da quando aveva deciso di sposare Tony senza l’approvazione paterna, non riusciva a capire a cosa si riferissero queste frasi apparentemente sconnesse tra loro. “Non volevo ucciderla”. Forse l’uomo, ormai anziano e malato, pensava a sua moglie, Ha Suran, di origine cinese, che improvvisamente aveva abbandonato marito e la piccola figlia senza dare a entrambi una spiegazione?
Eppure Val era certa che suo padre, uomo violento e crudele, non fosse un assassino, non sarebbe stato capace di commettere un omicidio. Era difficile per Val accettare che quella persona impotente e patetica, seduta su una sedia accanto alla finestra, fosse lo stesso uomo che l’aveva terrorizzata per tutti gli anni dell’adolescenza. Il mostro aveva perduto colore, ma il dolore che Irwin Scott le aveva inflitto perdurava e Val non riusciva a perdonarglielo. Sfuggita da un padre violento, Val era finita tra le braccia di un marito che lo era altrettanto, perché “gli esseri umani si lasciavano attrarre da ciò che era familiare”.
Quando pochi giorni dopo il padre era morto, dopo il funerale di rito russo ortodosso, Val si era recata presso l’abitazione paterna, un edificio in stile edoardiano, che una volta era stata una residenza elegante, ma ora emanava trascuratezza, tra i tanti oggetti trovati, uno si sarebbe rivelato interessante. Non le icone, non il samovar d’argento e neanche il portasigarette ma una vecchia macchina fotografica con l’obiettivo a soffietto di pelle. La Kodak Autographic, modello uscito attorno al 1914, conteneva al suo interno un rullino che qualcuno si era dimenticato di sviluppare. Otto scatti in bianco e nero, ricoperti da una patina, provenienti dal passato, alcuni di questi ritraevano ragazze con ampie gonne bianche lunghe fino alle caviglie e cappelli di paglia dai volti indistinti, una coppia seduta dai visi sfocati, un giardino e un ragazzino disteso su un divano. Una serie d’immagini che sembrava un puzzle, di cui ogni scatto metteva a fuoco alcuni pezzi. Un rompicapo, eppure occorreva partire proprio da quelle fotografie per scoprire il mistero che si celava dietro la vita complicata e oscura di Irwin Scott.
Ragazze in abiti candidi. Qua e là si distinguevano capelli lunghi fino alle spalle, un viso rotondo, una camicetta a collo alto, e Val ebbe l’impressione che fossero belle ragazze.
Dopo il bestseller “La moglie segreta”, che racconta la storia d’amore tra la granduchessa Tat’jana Romanov e un ufficiale della cavalleria, Dmitrij Malama, l’autrice punta la sua attenzione su un’altra figlia dello zar Nicola II, Marija, in un momento storico cruciale. È il 17 luglio 1918. La famiglia più ricca al mondo, strettamente legata a diverse dinastie reali europee, sta per essere sterminata a Ekaterinburg, dove l’ex zar Nicola II, sua moglie, l’ex zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova e i loro figli, quattro femmine e un maschio, sono rinchiusi sotto rigorosa sorveglianza dal nuovo potere sovietico nell’angusta Casa Ipat’ev.
Nelle pagine finali del romanzo, abilmente orchestrato su due piani temporali, l’autrice precisa che negli anni della guerra civile e subito dopo, tra i centomila e i duecentomila russi bianchi fuggirono oltre il confine orientale del Paese verso Harbin, in Manciuria, dove già viveva una consolidata comunità russa. Negli anni Venti del XX Secolo, l’influenza sovietica si diffuse anche nella città cinese, quindi alcuni russi migrarono di nuovo verso l’Unione Sovietica, altri in Giappone, America del Sud e in Australia.
Marija rimpianse di non essere una comune cittadina, anziché la figlia dello zar. Aveva solo diciotto anni e voleva divertirsi, ma in seguito alle rivolte di febbraio dell’anno precedente, la sua famiglia era stata messa agli arresti. Quasi quattordici mesi di prigionia.
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