La guerra di Piero di Fabrizio De André è una canzone, ma soprattutto è una storia, che merita di essere raccontata nel suo evolversi.
Il testo infatti, benché sia scritto in rima, segue un’evoluzione principalmente narrativa: assistiamo all’incedere di un personaggio, il soldato Piero, che sembra effettuare un moderno “viaggio dell’eroe” (il testo segue infatti la struttura narrativa classica alla base dello storytelling) che, va da sé, non lo condurrà a nessun lieto fine, ma gli permetterà di guadagnare una nuova consapevolezza.
La canzone si sviluppa in una sorta di testo a due voci: nelle strofe alternate ci vengono descritte, da un lato, le azioni di Piero; dall’altro l’intervento del narratore che fa da contraltare commentando, in modo critico, i pensieri del protagonista e interviene per esortarlo (“Fermati Piero, fermati adesso”) o soccorrerlo (“Sparagli Piero, sparagli ora”), quasi fosse la sua coscienza. Il tutto viene narrato al ritmo cadenzato di una ballata popolare, con un ritornello in rima ripetuto Dormi sepolto in un campo di grano con uno stile favoloso da filastrocca che, tuttavia, fin dal principio ci annuncia la tragica fine alla quale il giovane soldato è destinato.
Da questo punto di vista La guerra di Piero assume una forma retrospettiva, è una storia che ci viene narrata come attraverso un lungo flashback; il soldato sepolto - ma all’inizio sembra stia solo dormendo - ritorna in vita, come se la pellicola di un film venisse silenziosamente riavvolta, e lo rivediamo camminare dritto incontro al suo destino finché non cade a terra “senza un lamento” e comprende che la sua vita “finiva quel giorno e non ci sarebbe stato un ritorno”. La favola triste di Piero narra la guerra nella sua componente umana mostrando non il trionfo della battaglia né l’esplosione delle granate, ma la dinamica crudele e atavica, quasi preistorica, dell’uomo contro uomo: i due soldati imbracciano un fucile, come due cacciatori e, come vedremo nel finale, uno si farà carnefice e l’altro preda, ma il ruolo dell’uomo e quello della belva potrebbe apparire invertito.
La storia del soldato Piero è tragica ed eroica al contempo; perché la ragione che conduce Piero alla morte, racconta Fabrizio De André, è un’esitazione umana: non spara perché riconosce nel nemico un uomo “con il suo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore”. Questo atto di umanità, tuttavia, gli costerà caro; poiché la guerra non conosce indulgenza né cortesia, ed ecco che l’altro soldato lo vede - e anche qui la reazione è molto umana: lui si spaventa - così, preso dal terrore di morire, spara e lo uccide. La dinamica che si crea è quella di una selezione naturale darwiniana: “o io o lui”, o la mia vita o la sua, ovvero l’homo homini lupus ripreso da Hobbes per mostrare quanto l’uomo sia egoista perché dominato dall’istinto di sopravvivenza.
Non ci sono buoni né cattivi in questa storia, solo “un uomo che muore”, poiché nel momento in cui sta per morire, Piero non è più un soldato, soltanto un uomo. De André non manca mai di sottolineare quest’umanità tradita, indifesa, irredenta e persino spaventata, sgomenta, dalla prospettiva della morte, del nulla; l’ispirazione per la scrittura di questa canzone gli venne dai racconti di uno zio che aveva combattuto in Albania durante la guerra.
Scritta nei tumultuosi anni Sessanta, mentre infuriavano le contestazioni contro la guerra in Vietnam, La guerra di Piero è diventata un poetico inno antimilitarista.
È un testo molto letterario, nel quale De André tra gli altri cita anche il grande Italo Calvino.
Il testo fu composto e musicato da Faber con l’aiuto dell’amico Vittorio Centanaro, abile chitarrista, che avrebbe donato al brano il timbro cadenzato e ritmato, squisitamente folk, che oggi noi tutti conosciamo.
Vediamone testo, analisi letteraria e retorica e commento.
“La guerra di Piero” di Fabrizio De André: testo e analisi
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi
La canzone si apre con un’immagine in apparenza rasserenante: un campo di grano con i papaveri, una giornata primaverile. Un uomo dorme tra i papaveri rossi; al principio non è chiaro che sia morto, sembra stia solo riposando all’ombra dei fiori, godendosi la brezza che passa attraverso il campo di grano. I papaveri sono un chiaro simbolo: erano infatti i fiori prescelti per onorare i soldati caduti in battaglia.
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
Ora inizia il movimento, accompagnato dall’acqua del fiume che fluisce portando con sé i “cadaveri dei soldati”: è la prima immagine di guerra che si inserisce nel contesto idilliaco della parentesi primaverile. La limpida corrente che trasporta i lucci argentati è un’immagine mutuata da Dove vola l’avvoltoio, il testo contro la guerra scritto da Italo Calvino per le “Cantacronache” (1958) e musicato da Sergio Liberovici. Questa strofa di De André è proprio una specifica rilettura del brano calviniano che diceva così: Nella limpida corrente/ora scendon carpe e trote/non più i corpi dei soldati/che la fanno insanguinar. Non possiamo evitare di cogliere - nell’intero testo - anche un riferimento al primo romanzo di Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno (1947, di cui Calvino scrisse la celebre introduzione proprio nel 1964), che narrava la vita dei soldati durante la guerra partigiana, la Resistenza raccontata dal punto di vista di un bambino. Anche l’avventura di Pin, come quella di Piero, era una favola triste che narrava l’insensatezza della guerra attraverso un linguaggio figurato per immagini.
Così dicevi ed era d’inverno
E come gli altri verso l’inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve
Inizia il movimento del soldato - ancora senza nome - verso la sua sorte. Emerge forte il contrasto tra la primavera ridente del principio e l’inverno - metafora dell’inferno della guerra, ma forse riferito alla campagna in Russia - che il soldato si trova ad affrontare. Anche la neve, solitamente immagine candida e rasserenante, appare violenta: il vento gliela sputa in faccia, sembra compiere un atto scellerato, irrispettoso, ostacolando così la già difficile marcia del soldato.
Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po’ addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce
Ecco il primo intervento del narratore, che chiama il soldato per nome, dandogli per la prima volta un’identità. Sembra voler salvare Piero imponendogli di fermarsi, di ricordare che nulla lo ripagherà del suo sacrificio. La voce del narratore appare come un ammonimento di sfondo religioso, come il prete che predica sul pulpito: “Chi diede la vita ebbe in cambio una croce”, in una prospettiva ribaltata e anticlericale, invitando a non seguire l’esempio di Gesù.
Ma in fondo l’avvertimento potrebbe anche essere letto come la voce della coscienza del soldato.
Ma tu non lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a varcar la frontiera
In un bel giorno di primavera
Piero non ode l’avvertimento, il vento che soffiando gli porta il messaggio nefasto della guerra. Ritorna l’intermezzo a rimarcare il succedersi delle stagioni: arriva la primavera e non è messaggera di pace né di promesse di salvezza. Come sappiamo dal principio, la bella stagione porterà la morte del soldato. Questo “bel giorno di primavera” può essere letto in una prospettiva ossimorica, assume un connotato tragico. Il contrasto è dominante in questa strofa: Piero infatti marcia a “passo di giava”, quindi a passo di danza (il nome infatti si ispira a una compagnia di danzatrici indonesiane che importò una nuova tipologia di valzer in Francia nel XX secolo). Appare ancora più drammatica l’immagine di questo giovane soldato che avanza incontro alla morte a “passo di danza”.
E mentre marciavi con l’anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore
A questo punto il cammino di Piero si interrompe e avviene l’incontro con l’altro soldato, colui che identifica il nemico infatti “ha la divisa di un altro colore”. Eppure ciò che De André pone in evidenza in questo passaggio è che i due uomini sono uguali, se non fosse per quel colore della divisa - immagine simbolica ed efficace dell’insensatezza della guerra.
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
Si introduce di nuovo la voce della coscienza-narratore, ora più imperiosa, tenta di esortarlo, forse di salvarlo: “Sparagli Piero, sparagli ora”. Non ammette ritardi, non giustifica l’esitazione, anzi, la descrizione si fa drammatica immaginando l’altro soldato già morto, disteso nella pozza del suo stesso sangue. La voce della coscienza ora si fa violenta, feroce, appare quasi deformata nell’urgenza del grido: “Sparagli Piero, sparagli ora”, sembra che sia la guerra stessa a parlare, impone un ordine bestiale con la sua cieca ferocia.
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
Ora, nel finale, si introduce inattesa la voce stessa di Piero: è lui a parlare, esprimendo i suoi pensieri. Proprio in questa riflessione del soldato è racchiuso l’eroismo umano della sua impresa: l’angoscia che lo attanaglia è l’idea di vedere gli occhi di un uomo che muore, ovvero di essere responsabile della morte di un altro uomo. In quell’istante di terrore e tremore Piero capisce che quell’immagine - quella colpa - lo perseguiterebbe per il resto della sua vita come un incubo divorante.
E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l’artiglieria
Non ti ricambia la cortesia
Il destino si avvera in pochi secondi, come sottolinea il ritmo ora più accelerato della canzone. L’altro soldato si volta - terrorizzato dalla visione del nemico - senza indugio spara e uccide. In due strofe brevi e tra loro speculari, Fabrizio De André manifesta le due reazioni opposte dei soldati: mentre Piero riflette sulla responsabilità di uccidere un uomo, ecco che l’altro soldato obbedisce in nome dell’istinto, soverchiato dalla paura, spara al nemico, salvandosi la vita. Sembra quasi una scena di caccia, uno scontro tra animali.
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato
La musica si interrompe, così come la vita che scivola via. Non si sente più alcun suono di accompagnamento. De André ci descrive la morte di Piero in maniera commovente, come se fosse la scena di un film: lo vediamo cadere a terra “senza un lamento”, dunque muore come un cristo in croce, consapevole del proprio destino. E di riflesso odiamo i suoi pensieri: non ha tempo di confessarsi, ma esiste davvero un altro inferno oltre a quello che lui ha già vissuto sulla terra?
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno
Di nuovo vediamo Piero cadere, come al rallentatore, stavolta pienamente consapevole di morire. La ripetizione della sua caduta rende più estrema e inevitabile la sua morte. Ora è finito, è tutto finito: nel corpo di Piero che cade viene tradotta la consapevolezza,
Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all’inferno
Avrei preferito andarci in inverno
Ritorna la sua voce di ragazzo che si appella alle cose belle della vita, come Ninetta, la ragazza che amava - una donna che ci restituisce un intero repertorio di affetti familiari, dischiudendo un mondo felice, un passato senza terrore e morte. A Ninetta si appella Piero, rivolgendo a lei la sua ultima preghiera: gli dispiace, dice, morire di maggio, non è tempo di morire in primavera, sarebbe stato più dignitoso morire d’inverno quando i ghiacci e la neve riflettono l’immobilità della morte, il cuore ghiacciato dell’inferno - che ricorda il Cocito di Dante, il lago infernale. Il centro dell’inferno, secondo il Sommo Poeta, non è fuoco, ma ghiaccio, il contatto glaciale dell’odio, dell’incompiutezza, dell’immobilità.
E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole
Ora Piero non è più uomo e diventa cadavere: lo comprendiamo dal fatto che non può più parlare, poiché le sue parole sono “troppo gelate per sciogliersi al sole”. De André denota la differenza tra uomo vivo e uomo morto stabilendo questa demarcazione: le parole appartengono alla vita, sono il potere di chi è vivo. Il fucile, invece, può anche essere stretto dalle mani di un cadavere. In questa distinzione netta troviamo un atto di accusa importante contro la guerra: la guerra non appartiene all’umano.
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi.
Ritorna la strofa di apertura, il ritmo lento di ballata, Dormi sepolto in un campo di grano, con la stessa cadenza ritmata; ma stavolta l’immagine non è più idilliaca né consolatoria, anzi, è tragica, perché ora conosciamo la storia dell’uomo sepolto del campo di grano.
Non è più un uomo come tutti gli altri: è Piero (il nome lo determina e lo indentifica, gli dà un’appartenenza, lo rende riconoscibile), il ragazzo che amava Ninetta; è Piero, il ragazzo che ha esitato a sparare perché non voleva vedere la morte negli occhi di un altro uomo - e così è morto lui stesso, per quell’esitazione di troppo, non ripagata da un gesto di “cortesia”. Eppure la morale più crudele dell’intera storia è osservare che l’altro soldato ha sparato non per compiere un atto di crudeltà, ma perché spinto dal banale istinto di autoconservazione (homo homini lupus, appunto).
In quel faccia a faccia insensato - tra uomo e uomo, entrambi indifesi e terrorizzati - c’è il vero volto della guerra.
La guerra di Piero: il simbolo del papavero
Non ci sono vincitori né vinti, come in ogni guerra, solo la tragica evidenza di una vita spenta troppo presto, come un fiore reciso. I mille papaveri rossi diventano un’onoranza funebre, i fiori di campo posati sulla tomba del soldato, omaggio tardivo al suo sacrificio per la patria. Il riferimento al fiore di papavero non è casuale: era il fiore che cresceva sulle tombe dei soldati morti nelle Fiandre occidentali durante la Grande Guerra e divenne il simbolo in Inghilterra del Remembrance Day, il giorno della memoria dei caduti per la patria.
Una celebre poesia, Flanders Fields, the poppies blow, composta dal colonnello dell’esercito canadese John McCrae, recita così:
Flanders Fields, the poppies blow, row on row, that mark our place; and in the sky the larks, still bravely singing, fly scarce heard amid the guns below. We are the Dead. Short days ago we lived, felt dawn, saw sunset glow. loved and were loved, and now we lie, in Flanders fields.
Che tradotta in italiano significa:
Fioriscono i papaveri nei campi di Fiandra fra le croci che, fila dopo fila, segnano il nostro posto; e nel cielo volano le allodole, levando coraggioso il canto, che quaggiù fra i cannoni quasi non s’ode. Noi siamo i Morti. Qualche giorno fa eravamo vivi, sentivamo l’alba, vedevamo rifulgere il tramonto, amavamo ed eravamo amati, e ora siamo distesi nei campi di Fiandra.
Eccolo dunque il riferimento cui si è ispirato Fabrizio De André per il suo scenografico - e triste - incipit: Dormi sepolto in un campo di grano, e i suoi mille papaveri rossi che ricordano il colore del sangue, della passione e di un “bel giorno di primavera” che non conosce morte, almeno finché volano le allodole alte e cinguettanti nel cielo e fioriscono i fiori nei campi.
“La guerra di Piero” di Fabrizio De André: la canzone
“La guerra di Piero” di Fabrizio De André: un commento
Nella storia di Piero - un giovane soldato, ragazzo senza esperienza, mandato al fronte come tanti altri - si riverbera quella di milioni di altri soldati - del passato e del presente - condannati a morte nel momento stesso in cui indossano un elmetto e imbracciano un fucile. L’identificazione nella vicenda di Piero è rafforzata dalla presenza del narratore che subentra nella storia intervenendo con i suoi consigli: “Fermati Piero, fermati adesso”. Quella voce, che appare anche come la coscienza stessa del giovane uomo, sembra dischiudere la possibilità di un finale diverso, ci permette di rileggere l’intera vicenda da una duplice prospettiva, controfattuale. L’imperativo esortativo “Sparagli Piero, sparagli ora”, cantato quasi con violenza, sembra dare voce alla guerra stessa, alla sua insensatezza, alla sua disumanità. Infatti Piero non ascolta quella voce, Piero non spara, è questa la sua colpa, eppure è proprio questa sua apparente fragilità a fare di lui un eroe. Noi tutti che abbiamo compiuto questo breve tratto di strada con lui comprendiamo che la sua esitazione non è stata dettata dalla vigliaccheria: quello di Piero è stato un gesto umano, di fratellanza, che davvero meriterebbe una medaglia all’onore, mentre le medaglie coronano le divise di chi uccide senza pietà. Il cantautore, attraverso il suo testo, mette in luce la follia della guerra giocando e insistendo sui contrasti e sui paradossi.
La canzone di De André, in questo senso, può anche essere letta come un manifesto della non violenza.
Era un periodo di canzoni libertarie, di inni antimilitaristi: La guerra di Piero fu composta nel 1964, due anni dopo sarebbe stato il turno di C’era un ragazzo che come me di Gianni Morandi con l’onomatopeico “Rattatatata” scritto da Franco Migliacci che riproduceva il suono martellante e ritmico del mitra e incappò nella censura.
Erano gli anni della guerra nel Vietnam, attraverso le canzoni e la musica si voleva comunicare un senso di appartenenza alla vita politica.
L’italiano Piero sarebbe potuto essere anche un soldato americano o un soldato vietnamita, non c’era alcuna differenza, anche lui, come il ragazzo con la chitarra di Morandi, era un personaggio che poteva estendersi all’universale, diventando l’emblema dell’ingiustizia della guerra, di ogni guerra. Perché siamo tutti Piero nel momento in cui ascoltiamo la canzone: viviamo con lui, e moriamo con lui.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La guerra di Piero” di Fabrizio De André: significato e analisi della canzone
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