La luna di Giufà
- Autore: Mario Agosta
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
Tra le storie arabe riportate dalla Corrao è meritevole di rilettura Ğuhâ e la luna: un breve racconto che, dall’intreccio semplice, mostra l’ingenuità del personaggio, il quale passando nei pressi di un pozzo, vede la luna riflessa nell’acqua.
La sua impressione si traduce in un pensiero del tutto magicamente infantile: gli viene in mente la caduta dell’astro nel pozzo.
Riflette e si pone il problema di come salvarla. Allora va in cerca di un gancio, lo fissa all’estremità di una corda e la getta nel pozzo; lega l’altro capo della corda a una grossa pietra.
Tirando con tutte le sue forze, la corda si spezza ed egli rimane a gambe all’aria: posizione, questa, che gli consente di vedere la luna in cielo.
Ecco la sua esclamazione:
Mi sarò fatto male, ma in compenso ho salvato la luna dall’annegamento!
Cambiando la posizione, muta dunque la percezione della realtà e facilmente si scambia “l’apparenza e l’illusione con la realtà”.
La studiosa commenta:
Per alcune istanze l’aneddoto può anche esser letto come un invito a trascendere l’ordine logico che ci siamo costruiti, stimolandoci a riflettere e a guardare oltre i rigidi confini delle nostre convinzioni.
Da diverse prospettive è ricorrente nella narrativa popolare il rapporto di Giufà con la luna e ciò si evince anche leggendo il bel libro dello scrittore di Modica Mario Agosta, intitolato La luna di Giufà" (Palermo, Ila Palma, 1991): una raccolta di storie su Giufà scritte con un linguaggio dal tono letterario, ancorché semplice e immediato.
È l’autore a spiegare in “premessa” l’intento dell’opera:
Crediamo di aver fatto cosa gradita a quanti hanno a cuore la conservazione del nostro patrimonio culturale presentare le novelle di Giufà, fra le quali alcune inedite, raccolte in varie parti della Sicilia. I “pezzi”, trascritti nelle varie parlate locali, sono stati volti in lingua per chi non avesse familiarità col dialetto […]. Il fine che ci proponiamo è quello di presentare il personaggio di Giufà a quanti non lo conoscessero: figura singolare, per certi aspetti strana, che riflette la verità della condizione contadina nel cui multiforme aspetto si proiettano i nostri desideri e le nostre aspettative.
La prima novella che intitola l’opera fa leva sull’immaginario e presenta un Giufà insolito, non refrattario ai sentimenti benché elementari. All’inizio il personaggio di notte dorme e sogna, ma d’improvviso viene svegliato e gli pare che qualcuno l’abbia chiamato. Non vede nessuno dallo sportellino-spia. Crede che sia la voce del suo asino e corre per la stalla.
Accortosi che la mangiatoia è vuota, provvede subito a riempirla di paglia e di fieno per non farlo più brontolare.
Poiché il lamento di prima non cessa, ritiene che l’asino, volendo bere, ha ragione di lamentarsi:
Non esitò un solo istante, si mise la mantellina, cavalcò l’asino e partì alla volta del pozzo.
La descrizione del paesaggio notturno, ottenuta con lievi pennellate, è confortante; rivela la poeticità emozionale dell’animo per l’apparire di alcuni elementi naturali:
Fuori c’era un bel chiarore e un venticello che giocherellando con alberi ed alberelli faceva bisbigliare le foglie tra loro come tante comari sfaccendate. E quel bisbiglio, per Giufà, era musica e compagnia.
Intanto che entrambi procedono lesti per il timore di fare cattivi incontri, Giufà scorge la luna sopra Mongibello e la scambia per una pagnottella: una di quelle che al forno gli preparava sua madre; sicché, si propone di andarla a prendere per cibarsene.
Più l’asino corre, più la luna s’allontana fino a nascondersi dietro una nuvola.
Avvicinatosi al pozzo, la vede nello specchio dell’acqua:
La luna, pane desiderato, sembrava aspettarlo con le braccia aperte… Gli si aprì il cuore. Con i ricordi che vagavano nel passato quando la grazia di Dio inondava di fragranza la casa e non soltanto la casa, allungò la mano per prenderla. Ma, destino crudele, più allungava la mano più la luna s’allontanava, scolorendo ogni cosa, sino a quando sparì.
Anche in questo racconto dall’avvincente affabulazione a prevalere è la fantasia del personaggio mancante di un benché minimo contatto con la realtà: egli la ignora e di sicuro sta qui il suo essere libero che gli fa apparire magico il mondo.
Facendogli scambiare la fisicità con la finzione, il pensare magicamente, è pertanto un tratto della sua personalità. Per farsene un’idea dettagliata, Mario Agosta tenta di scandagliarla nel racconto Una ne fa e cento ne pensa.
A un certo momento, un narratore, rievocando con una punta di nostalgia le imprese di Giufà, dice:
Il nostro non è che sia imbecille; se lo fa, è per non pagare il dazio, ma è un’altra cosa. Disperato può essere e la disperazione è quella che sempre detta leggi. La notte, mentre tutti sono tra le braccia di Morfeo senza alcun pensiero, lui pensa come potrà prendere in giro il prossimo con ogni sorta di marchingegno. Da ragazzo era sempre tra i piedi: un mariuolo, un giocoliere. Ne combinava di tutti i colori e, cose storte, finiva col farne a non finire...
Vengono infine narrati aneddoti in cui Giufà escogita mille espedienti per sfamarsi o guadagnare qualche soldo con la mente sempre intenta a come risolvere con l’astuzia i problemi del vivere quotidiano. Del resto, l’astuzia è una qualità fondamentale del contadino così come viene rappresentato dal demologo Serafino Amabile Guastella. Dinanzi all’assoluta prevaricazione dello Stato che si serve degli sbirri per soddisfare la sua ingordigia (“La voce birro” – scrive in nota l’autore nel volume Le parità e le storie morali – “pel volgo è generica, e comprende il giudice, il cancelliere, l’usciere, il doganiere, il ricevitore, l’esattore, la guardia di polizia e via dicendo”), resta l’astuzia che si manifesta nel furto e nell’inganno a danno dei padroni per riequilibrare i rapporti socio-economici danneggiati.
I detti attestano la liceità del furto nei riguardi dello Stato (“La roba del Re è roba del pubblico”; “Chi ruba al re non ruba a nessuno”), mentre la leggenda del vecchio staffiere, nel confermare il furto a svantaggio dei ricchi, esclude che esso possa essere esercitato a danno degli indigenti. Se il contrabbandiere è la provvidenza del povero, il re ne è il persecutore.
Per molti aspetti il villano di Guastella sembra uscire dalle pagine di Boccaccio in cui la beffa è assunta a misura del comportamento. Le sue astuzie, che, oltre a quelle di Giufà, fanno venire in mente anche le strategie di Bertoldo (una delle figure più popolari della satira villanesca), sono sostenute da una motivazione fondata sulla credibilità della parabola. Il contadino non è un ingenuo e non appare del tutto rassegnato alla povertà.
Lo sciocco, l’astuto e il saggio ancora una volta sono qualità d’una finzione con la possibilità di capovolgere a proprio vantaggio anche le circostanze più sfavorevoli ed è il mangiare, bisogno messo in moto dall’istinto di sopravvivenza, a concretizzarsi nella voglia di Giufà di portare a casa qualcosa; i suoi desideri, in fondo si risolvono nell’aver fame e sete e si ride delle incredibili astuzie e delle trasgressioni, pur di non lavorare, di cui si serve per realizzarli.
Gradevole è la modalità narrativa di Mario Agosta, le cui storie indubbiamente arricchiscono la fisionomia della novellistica popolare così come si è mantenuta fino agli anni Sessanta.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La luna di Giufà
Lascia il tuo commento