La sindrome di Gertrude. Quasi un’autobiografia
- Autore: Lella Costa e Andrea Casoli
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Rizzoli
- Anno di pubblicazione: 2009
Ne La sindrome di Gertrude. Quasi un’autobiografia (Rizzoli, 2009) c’è tanto da sorridere, da commuoversi e (per i più sensibili), persino da versare qualche lacrima, per le pagine più toccanti, come nel capitolo "Stanchi di guerra" o in quelle sul lutto negato a chi ha dovuto compiere la scelta di un aborto obbligato. L’autrice Lella Costa, famosa attrice, nega sin dal principio in questa sua prima performance letteraria di considerarsi una vera scrittrice, ma rivendica con orgoglio e un po’ di ironia, la sua identità di autrice di teatro.
"Io non scrivo pagine, ma partiture e di conseguenza, la mia non è punteggiatura, ma solfeggio, pause, indicazioni di tono e di ritmo. Io scrivo per essere letta a voce alta. Provateci. Così poi glielo spiegate voi a Casoli."
In queste righe Lella Costa lancia una frecciatina al curatore dell’opera, Andrea Casoli, dal quale ha ricevuto la richiesta per la scrittura di questo libro, considerando poi un po "ardito" e "poco meno che criminoso" il suo modo di usare la punteggiatura.
I vari episodi del libro parlano delle città, dei teatri e di altri luoghi, ma soprattutto delle situazioni con personaggi, più o meno famosi, conosciuti, incontrati, ammirati o amati, tra le pagine di una vita (la sua), ricca, intensa e fertile, di parole, di opere e in un certo senso anche di "missioni" laiche. I suoi pensieri razionali, intrisi di emozioni, sentimenti e valori morali, che non debordano mai nel moralismo, ci offrono un ritratto dell’autrice ben definito. Traspare chiaramente, tra le righe, la sua indole un po’ fuori dagli schemi, un po’ "autarchica", come dichiara lei stessa, spiegando il suo atteggiamento verso le scarpe.
"Non sopporto gli integralismi, le crociate, le appropriazioni indebite di concetti come normalità o moralità, bene e male, vita e morte."
La sua complessità, come persona e come attrice, rende difficile classificare il genere teatrale che rappresenta. "Teatro di narrazione" suggerisce qualcuno; forse, ma probabilmente non basta, come definizione. In ogni suo racconto di questo libro, mentre parla dei vari personaggi (da Gino Strada a Adriano Sofri, fino a Antonio Marras o ai "pretastri" (n.d.r. definizione presa in prestito dall’autrice dal titolo di un libro di Candido Cannavò) come Don Andrea Gallo "prete da marciapiede angelicamente anarchico", o ai musicisti come Paolo Conte, Bollani e Paolo Fresu, "con la sua tromba fatata"); in fondo descrive, in ogni pagina, anche se stessa. La sua empatia, la sua volontà di partecipare agli eventi sociali importanti e alle battaglie per i diritti civili. La sua voglia di mettersi in gioco, non solo sulla scena di un teatro o di un carcere, davanti a un pubblico di detenuti, ma anche con un pizzico di incoscienza, improvvisando al pianoforte, accanto a un grande pianista.
Un punto debole del suo carattere? Lei sostiene di lasciarsi coinvolgere continuamente, senza rifiutarsi quasi mai. Quasi sempre si tratta di non riuscire a sottrarsi al suo dovere di cittadina e artista fortunata e dotata, sicuramente, di un dono speciale: quello di riuscire a farsi ascoltare; suscitando riso, lacrime, qualche brivido, spunti di riflessione e, magari, qualche scintilla di consapevolezza in più, nel pubblico (generalmente pagante), che va ad ascoltarla. Il titolo del libro nasce appunto dalla sindrome che l’autrice si attribuisce, per la sua tendenza ad accettare quasi sempre le proposte di impegno che le vengono rivolte, senza soffermarsi troppo a considerare che forse non avrà "tutto il tempo, o la pazienza, o magari la capacità di far fronte a quello che la richiesta comporta". In realtà si capisce chiaramente come ogni gesto di partecipazione sia dovuto alla sua propensione a schierarsi apertamente, con coerenza, per ciò che ritiene "buono e giusto", nelle adesioni che richiedono spesso anche una certa dose di coraggio.
Da questo testo letterario si potrebbe intuire che il segreto del successo artistico (raggiunto e mantenuto con la tenacia e il rigore professionale dei grandi artisti), non sia racchiuso soltanto nella sua abilità scenica di interprete e autrice dei suoi monologhi, o in quel suo fascino spiccatamente femminile. Il suo essere credibile come interprete teatrale, deriva probabilmente anche dalla sua autenticità, nella vita, come sul palcoscenico, di persona e attrice. Una donna, più che originale, "unica e irripetibile, nel bene e nel male", come scrive lei stessa.
La definizione esatta sul genere letterario di questo suo primo libro, così come per il suo modo di fare teatro, non è semplice. La sindrome di Geltrude non è un romanzo e non è un saggio. Non si tratta neppure, come dice il sottotitolo, di una vera autobiografia. Può sorgere il dubbio, leggendo, che alcune situazioni intime, da lei svelate, della sua vita privata, come gli aborti o le maternità, siano soprattutto lo spunto per affrontare (senza salire in cattedra), alcuni aspetti ancora dolenti e spinosi nella vita di molte donne, che non hanno la stessa possibilità di farsi sentire. In questo caso Lella Costa presta la sua voce attraverso la carta stampata, senza mostrarsi fisicamente, senza esibirsi come fa di solito in teatro. L’obiettivo però non cambia: farsi portavoce, ancora una volta, dei sacrosanti diritti umani, che siano donne, uomini o transgender.
Il libro è diviso in trenta capitoli più due: la nota al testo di Andrea Casoli e una "Breve rassegna critica" di Paolo Pinto. Trenta porzioni di una sacher-torta dolce-amara, da assaporare con gusto. Una sfilza di storie vere e straordinarie, che tengono desta l’attenzione su ogni episodio. È come incontrare una persona speciale che ci incuriosisce e ci racconta, con brio, molte cose del suo mondo. Un universo fatto di cose quotidiane e di eventi importanti, che spaziano in varie direzioni e, direttamente o indirettamente, ci riguardano, ci toccano, ci indignano, ci spaventano; oppure ci divertono, con amabile e talvolta pungente ironia.
Un mix di argomenti che toccano, con arguzia, temi fondamentali della situazione politica in Italia; alternando storie di spettacolo o di programmi televisivi; piuttosto che di concerti e musica dal vivo, sul prato dell’Agnata, in Sardegna. Non vengono esclusi neppure argomenti apparentemente più leggeri, come certe, irresistibili tentazioni, legate alle creazioni della moda. Nel capitolo "Marras-mania", l’autrice si sofferma, per diverse pagine, in una dichiarazione di affetto e di stima per lo stilista sardo Antonio Marras. In questo caso Lella Costa aggiunge peso e valore a ciò che spesso viene considerato soltanto frivolo e poco essenziale. Dalla sua narrazione si evince e convince che la Moda, quella con la M maiuscola, può diventare arte, impegno, occupazione e (con i suoi preziosi ed elaborati costumi), grande risorsa culturale; oltre che economica.
La lettura scorrevole e stimolante consente un ritmo veloce. Quando arriva il momento del commiato con l’autrice (a pagina 225, con il capitolo "Le ragazze - Il finale?"), si sente già la sua mancanza e vorresti incontrarla di nuovo: in teatro, oppure in libreria, con un altro testo ugualmente serio e profondo, lieve e sfizioso, come questo. Un altro libro ricco di ingredienti, diversamente politico, un po’ spiritoso e un po’ spirituale; insomma un genere policromo. Infine: un altro libro che si legge volentieri anche due volte di seguito, per poterlo ricordare, citare e consigliare ad altri.
La sindrome di Gertrude. Quasi un'autobiografia
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La sindrome di Gertrude. Quasi un’autobiografia
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