La violenza illustrata di Nanni Balestrini

Nove capitoli-episodi come i grani di un rosario acre, che sa di sangue, nubi mortifere e lacrimogeni. Ciascuno una declinazione di violenza urbana, di volta in volta subdola, fulminea, studiata, sotterranea, eclatante, solitaria, di gruppo: dallo sgombro forzato delle case abusive a una rapina in banca; dalla crudeltà verbale dei giornali di Milano a quella della nuova produzione; dalla ferocia istituzionale a quella rivoluzionaria.

Pubblicato per la prima volta nel 1976 dalla casa editrice Einaudi e riproposto nel 2011 da Derive/Approdi, questo libro di Nanni Balestrini piove dritto dal cuore dei Settanta. Dello spirito di denuncia sociale di quegli anni è intriso fino all’osso: da un lato i detentori dei mezzi di produzione, con i loro apparati polizieschi di mantenimento del potere, dall’altro una buona fetta di società civile in rivolta, in risposta alla sopraffazione scientemente perpetrata. Inutile girarci attorno: dalla strage di piazza Fontana in poi, per oltre un decennio, in Italia sono state tenute le prove tecniche di una rivoluzione che rintraccia il suo movente nel malessere diffuso tra le classi meno abbienti. La narrazione di Balestrini si conferma dialettica: asettica e concitata, neo-realista ed epica al contempo. Una narrazione destrutturata, difficile, sperimentale (punteggiatura che va e che viene), eppure indispensabile, densa, foriera di provocazioni e di valore aggiunto, centrata, soprattutto, sul “qui e ora” degli avvenimenti. Come in un flusso di coscienza individuale e collettiva, come un paradigma, un incubo da cui si viene fuori col batticuore. Con “La violenza illustrata” siamo dalle parti del romanzo civile, insomma, quello senza edulcoranti, e nemmeno (finte) morali consolatorie, quello buono per riflettere, pensare. Storie esemplari di guerriglia esemplare pervenute ai nostri giorni alquanto acquiescenti. Un romanzo insolito, diretto, politico.

Per chi non si nasconde dietro il paravento della rimozione e ha l’onestà intellettuale di ammettere che l’atto della ribellione (individuale o collettivo che sia) non nasce per partenogenesi ma, quasi sempre, in risposta a un reiterato processo di prevaricazione.