Durante l’ultima giornata della fiera Più Libri Più Liberi 2024, alla Nuvola, nella Sala Antares, si è tenuto un dialogo sulla poesia, presentato da Paolo Di Paolo e Giovanni Nucci e a cura di Il Mulino e L’Altracittà, intitolato “Ladri, poeti e fingitori”.
È un esperimento di dialogo che hanno immaginato insieme alla direttrice artistica della fiera, Chiara Valerio, strutturato sulla base di suggestioni attorno a libri di poesia e sulla poesia, e sulla differenza tra i due.
Il punto di partenza è stata una notizia di cronaca che ha avuto una risonanza internazionale: durante un tentativo di furto, il ladro è stato bloccato perché si era lasciato avvolgere dalla lettura di un libro di Giovanni Nucci (n.d.r. si trattava di Gli dèi alle sei: L’Iliade all’ora dell’aperitivo, Bompiani, 2023)
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Come ha vissuto Nucci questa ondata di curiosità? Dopotutto, un ladro è stato arrestato per “colpa” di un suo libro. Nucci sostiene che la cosa importante è l’eco poetica: quello che colpisce è l’aura romantica che coinvolge la poesia, il fatto che qualcuno smetta di fare il suo lavoro - discutibile se sia nobile o meno - per leggere.
“Non un ladro malvagio, anche perché si è fermato a leggere un mio libro”
sostiene Nucci scherzosamente. Lui ci legge un’attenzione poetica, la capacità della poesia di catturare l’attenzione su un piano che non è quello della razionalità. Secondo Nucci, infatti, il ladro
“si è messo a leggere, si è ricordato di essere vivo.”
È una notizia che sembra una favola, come se non sembrasse veramente credibile, perché è successo un evento che nella realtà sembra non poter accadere. Il ladro, quando si è messo in contatto con il libro, è precipitato nel libro, nella possibilità straordinaria della lettura, quando siamo completamente e irrimediabilmente immersi, per citare Di Paolo,
“di dimenticare il mondo circostante, e di ricordare qualcosa di intensamente nostro, ovvero essere vivi.”
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Di Paolo, nel suo libro Rimembri ancora, sostiene che le poesie scolastiche non abbiano funzionato come talismani, come radiatori di senso, ma c’è qualcosa che le rende stinte, al netto che siano belle o meno. Ma il punto è un altro: con l’esperienza adulta, quando ci fermiamo davanti a una poesia, lo facciamo perché riconosciamo in questa qualcosa di familiare, sentiamo un’aria di famiglia quando rileggiamo queste poesie di scuola, perché ci siamo passati; lo stesso accade con i miti e le storie fondative della nostra società.
Secondo Nucci, il mito e la poesia stanno nella stessa parte del cervello, c’è un aspetto cerebrale a cui va data attenzione; abbiamo una griglia mentale con cui codifichiamo la realtà, tramite principi logici, e siamo abituati a organizzare - e a subire - il mondo in questa maniera. Il nostro cervello non funziona come gli algoritmi: non è solo coscienza, ma anche sogno, che rompe le regole della logica. Quello che sogniamo non è applicabile al modo in cui analizziamo la realtà:
“il mito e la poesia stanno nello stesso luogo dei sogni, per questo li riconosciamo e ci stupiscono.”
Di Paolo sostiene che c’è un paradosso di fondo: la poesia sembra distante dalla vita ed è un paradosso che riguarda i poeti che studiamo a scuola, come se fossero inconcreti, ma i poeti non stanno facendo altro che interrogare la realtà, anche con la lente ambigua del sogno, come se nel sogno si vedesse qualcosa di inoppugnabilmente vero. Quando usi la metafora e l’allegoria, che sono come delle “lenti strane”, vedi cose collegate ad altre. Per Di Paolo, la metafora è una parola che ci viene consegnata, come una cassetta degli attrezzi simbolica, quando a scuola cominciamo a prendere coscienza della forma poetica.
La cosa più trasparente l’ha capita, e lo racconta nel libro, quando in Grecia, in un viaggio, capì che su un camion c’era la scritta “metafora”. Pura poesia? No: semplicemente, la sua etimologia è greca, e significa “trasporto”, “trasloco”.
“La poesia è un mondo di parole che trasloca in un altro mondo. […] Che sia il trasloco in un sogno, la posta in gioco sono sempre pezzi di realtà.”
Interessante è il paragone di Nucci ispirato alla mitologia greca: Ade, dio degli inferi, è anche il dio dei sogni. Il luogo dei sogni è il luogo delle anime e della morte, che non è l’inferno come ce l’ha raccontato Dante, ma è uno spazio altro, dove la presenza degli dei è molto forte, e dove si accede in maniera diversa rispetto al quotidiano. La poesia è una chiave di accesso a quel luogo, che è lo stesso dei sogni e dell’anima; la conseguenza è che, quindi, la poesia è nutrimento per l’anima.
Il discorso si sposta sul grande trauma del ‘900, ovvero la prima guerra mondiale, e il modo in cui i poeti della letteratura italiana hanno risposto a questo evento catastrofico: Eugenio Montale mostra chiaramente il suo “male di vivere”, che è al centro del secolo scorso, e l’immagine che dà è che l’unica cosa che resta, di fronte alla devastazione della guerra, sono le parole.
Di Paolo aggiunge che il grande trauma della prima guerra mondiale è qualcosa senza il quale non capiremmo tutta la poesia fino agli anni ‘50 e ‘60 e questo vale anche per quei letterati che nella stessa vita hanno fatto esperienza pure della seconda guerra, poiché il grande trauma resta comunque il ’15-’18, e tutto quello che scrivono dopo risente di quel trauma, e soprattutto di quel silenzio. Una delle esperienze più eclatanti dell’assenza del racconto è il ritorno dei reduci, che non reagivano, non parlavano di quello che è accaduto, tant’è vero che si può parlare propriamente di “silenzio dei reduci”.
Montale e Ungaretti sfidano il silenzio macabro della guerra e di come, rendendosi conto di come l’umanità stesse entrando in quella dimensione senza una valida difesa intellettuale, dovessero ritrovare le parole che i reduci non avevano, o non sapevano pronunciare. Giuseppe Ungaretti le cerca addirittura al fronte e da qui capiamo che quell’economia di parole che lo caratterizza è un’urgenza espressiva: l’idea è che non puoi sperperare la parola dove questa è negata e quella poesia scabra è tutto ciò che puoi dire. Sono poesie urgenti che nascono da sensazioni, come l’essere sul punto di essere staccati dal ramo dell’esistenza, come foglie - un chiaro riferimento alla sua celebre poesia “Soldati”.
Dall’altro lato, Montale, pur senza l’esperienza del fronte, sente che il male di vivere è un’emanazione di quel conflitto: anche lui percepisce, come sostiene Di Paolo,
“la fatica di trovare le parole, per tornare alla vita, per ricordarsi di essere vivi.”
Nucci conclude raccontando un passo dell’Iliade, in cui Elena afferma che, di tutta questa tristezza, resteranno solo le parole dei poeti. Niente più vero di questo, ed è evidente anche subito dopo la prima guerra mondiale, in quella “terra desolata”, per usare le parole di T. S. Eliot.
In questo momento, che sembra molto simile alla distruzione di Troia e agli anni ’20 del secolo scorso, c’è un bisogno estremo di poesia, e in particolare di poesia d’amore, un tema, per Di Paolo, inaggirabile, il fondamento stesso della composizione poetica.
Cosa abbiamo imparato da questo brillante evento? Di Paolo ce lo spiega brevemente con un’ironia impagabile:
“Tenete dei libri in casa come antifurto.”
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Ladri, poeti e fingitori”: un dialogo sulla poesia a Più Libri Più Liberi
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