Le battaglie dimenticate
- Autore: Giorgio Longo
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2003
"Le battaglie dimenticate" fanti all’assalto del Monte San Michele: mesi d’inferno nella Grande Guerra.
Monte San Michele, un rilievo modesto, solo 275 metri, che ha rappresentato la chiave della difesa austriaca sulla riva sinistra del basso Isonzo, nei primi 14 mesi della Grande Guerra, cento anni fa. Cinque divisioni italiane, 19 brigate, 38 reggimenti di fanteria, migliaia di uomini fermati dai reticolati, dalle mitragliatrici, dalle bombe, costretti a soffrire costantemente, tanto negli assalti allo scoperto che al riparo di trincee disagevoli, poco più che grattate nella roccia carsica.
Quanti pianti è costato il San Michele a soldati e famiglie, non solo al grande poeta Ungaretti (come questa pietra è il mio pianto, che non si vede), semplice fante del 19° a San Martino, Bosco Cappuccio, Quota 141, Cima Quattro, al Valloncello dell’Albero Isolato.
Si è scritto tanto sulle vicende belliche nel piccolo monte di sangue, ma nessuno prima del torinese Giorgio Longo le aveva affrontate nel loro intero sviluppo, dal giugno 1915 all’agosto 1916. Nessuno si era soffermato, ad esempio, sullo sforzo degli alti comandi, spinti dagli ufficiali che assistevano al massacro sul Carso, di trovare varianti all’attacco frontale. Il tentativo di migliorare le condizioni operative dei nostri venne portato avanti, ma contemporaneamente gli austroungarici perfezionavano le tecniche di difesa e lo stallo continuava. Il lavoro di Longo è nato come tesi di laurea, prima che la casa editrice Itinera Progetti lo pubblicasse col titolo “Le battaglie dimenticate” (254 pagine 21 euro), su carta di pregio, con buone immagini in bianconero e cartine dei settori.
La ricerca sulle fonti archivistiche ha dato i suoi frutti: uno spaccato ineccepibilmente documentato della lunga battaglia per il San Michele, vista in tutta la sua complessità, spiega il relatore e prefatore, lo storico Giorgio Rochat. Una ricostruzione ricca di momenti anche narrativi, che mette in evidenza la straordinaria capacità di sacrificio di truppe e ufficiali, gli assalti falliti e le sofferenze disumane, la dura determinazione dei comandi nel mandare a morire i soldati, i successi parziali ottenuti dalla stentata ricerca di un’organizzazione offensiva migliore.
Nel primo anno di guerra, le nostre truppe sul Carso ebbero tutto contro, dalla propria impreparazione all’esperienza difensiva maturata da un nemico rodato da molti mesi di conflitto contro i russi. Il terreno poi era inadatto a consentire e soprattutto consolidare le conquiste, non potendo scavare ripari profondi nelle pietraie. Il pronto contrattacco ributtava i nostri sulle linee di partenza. Ma tutti soffrivano sul San Michele, quel monte era un macello anche per i difensori. Gli alberi erano stati spazzati via e questo lo apriva all’osservazione da ogni punto e quindi al tiro efficace delle artiglierie, ai danni delle truppe sul terreno.
Il resto lo faceva l’equipaggiamento inizialmente inadatto. Per due mesi, le uniformi di taglio migliore e tinta più chiara rispetto ai soldati, esposero gli ufficiali italiani a grandi stragi: il fuoco avversario si dirigeva contro di loro. Chi si impegnava in prima linea per molto tempo ebbe la testa “protetta” solo dal berretto di panno (gli elmetti vennero distribuiti solo dal 1916 e indossati volentieri perchè leggeri ed efficaci). Nei primi scontri i fanti si “slanciarono” all’attacco con lo zaino affardellato: ce ne volle per riconoscere burocraticamente che lo scomodo oggetto in spalla li impacciava nella terra di nessuno. Per le dotazioni individuali di reparto andava addirittura peggio. Fino a tutto il 1915 mancarono bombe a mano, mitragliatrici e artiglieri moderne, semplicemente perchè non era stata prevista la necessità.
E che dire dell’inadeguatezza delle tecniche per aprire varchi nei reticolati? Disposizioni superiori vietavano ai comandi locali di arrendersi all’impossibilità prima di aver tutto tentato. questo si traduceva in una strage di coraggiosi tagliafili che strisciavano allo scoperto e nella mattanza di ondate di poveri attaccanti intrappolati dal filo spinato.
Altra considerazione: anche i filmati d’epoca mostrano gli ufficiali avversari lustri e ordinati, con capi d’abbigliamento perfino eleganti. Ma questo, una volta tanto, rende onore ai nostri. Perfino molti colonnelli, come facevano tutti i subalterni, condividevano turni e disagi in trincea con gli uomini al loro comando, mentre la casta austriaca teneva l’ufficialità a distanza dalle truppe e ben al riparo. Era un esercito classista, diversamente dal nostro, dove un tenente, un capitano, un maggiore subivano gli stessi disagi dell’ultimo fante nel fango.
Infine, la dolorosa contabilità delle perdite. Nei 14 mesi sul San Michele gli italiani non contarono meno di 80mila morti, feriti e dispersi. Uno studioso ha sommato i rapporti di tutte le divisioni giungendo alla cifra impressionante di 112mila uomini. Tutto su un fronte largo appena 20 chilometri. Macello, mattanza, carneficina, massacro non sono espressioni retoriche.
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