In attesa della Notte di San Lorenzo, che si tiene ogni anno il 10 agosto, vi proponiamo un’analisi comparata delle più celebri poesie sulle stelle: da Leopardi a Rilke, da Pascoli a Ungaretti, sino ai contributi più recenti di Trilussa e Szymborska. Ogni voce poetica ha raccontato le stelle a modo proprio, scoprendo nella vastità del cielo stellato un’ispirazione sconosciuta perché direttamente collegata con il più segreto e intimo sentire del cuore umano. Di verso in verso le stelle assumono le sembianze di un desiderio, di un rimpianto, di un mistero, di una speranza, della redenzione o della follia.
Nella trama di un cielo stellato si iscrivono le traiettorie oscure di un destino e anche l’eterno dissidio dell’uomo, consapevole della propria piccolezza dinnanzi all’Infinito.
Nella traiettoria delle stelle cadenti, l’uomo scopre il mistero della propria mortalità e ne chiede ragione all’eterna infinitezza del cielo.
Scopriamo similitudini e differenze tra le stelle cantate dai poeti.
Le stelle nella poesia
Spesso in occasione del 10 agosto si cita esclusivamente la poesia di Giovanni Pascoli X agosto, in cui il vero protagonista è il problema metafisico del Male presente nel mondo che, infine, si rovescia nelle sembianze pietose del “pianto di stelle” incapace di consolare quell’“atomo opaco del male” che è la Terra.
Nella celebre lirica pascoliana le stelle non assumono la forma di un desiderio, ma di un rimpianto. Il poeta infatti sta rievocando una data precisa, il 10 agosto 1867, quando il padre, Ruggero, venne ucciso in un agguato mentre tornava da Cesena a bordo del suo calesse. La Notte di San Lorenzo da Pascoli fu sempre vissuta come una rievocazione del trauma che aveva spezzato la sua infanzia, la poesia X agosto si concentra proprio sul senso di caduta: cadono le stelle, così come cade la rondine dal nido, è il buio a predominare sulla luce, l’assenza di speranza. Nella poesia di Giovanni Pascoli tuttavia le stelle assumono molteplici significati: sono baratro e polverio, promessa e disperazione. Nella lirica L’imbrunire, ad esempio, il poeta collega la Via Lattea a un’immagine di serenità e calore domestico. Il cielo stellato nella poesia di Pascoli è sempre una mappa attraverso cui orientarsi e nella quale trovare un riflesso rovesciato del caotico e incomprensibile mondo terrestre.
La poesia X agosto ha legato per sempre il nome di Pascoli alla notte di San Lorenzo; ma non fu il Fanciullino il solo a cantare le stelle. Troviamo il mistero delle stelle cadenti nella Divina Commedia di Dante, nelle parole d’amore di Shakespeare, nella riflessione metafisica di Leopardi, nella solitudine di Ungaretti, nell’ironia sagace di Trilussa e poi ancora in Rilke, Merini e Szymborska.
I poeti hanno cantato le stelle poiché le hanno contemplate a lungo cercando di coglierne il mistero, si sono persi nella loro luce tentando di afferrare un passato lontano e un futuro vicino; ogni uomo è attratto dalla luce delle stelle e sembra porre a quei lumi guida nella notte scura la stessa perentoria, antica domanda: “Chi sono io?”.
Le stelle cadenti cantate da Dante
Il fenomeno delle stelle cadenti viene citato anche da Dante nella Divina Commedia, in particolare nel IV Canto del Purgatorio quando, riferendosi alle anime, le paragona alle stelle nella notte d’agosto, perché piovono su di lui chiedendo di essere ricordate ai viventi: scoprono che Dante è vivo perché proietta un’ombra e quindi lo assediano. Sono le anime dei “morti per forza”, coloro che hanno fatto una fine violenta senza poter chiedere perdono per i propri peccati.
Vapori accesi non vid’io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d’agosto,che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta
come schiera che scorre sanza freno.
Ritroviamo l’immagine delle stelle cadenti anche nel Paradiso, nel Canto XV, all’apparizione dell’avo Cacciaguida. Uno dei lumi dei Beati infatti si muove simile a una stella cadente che attraversa il cielo sereno prima di manifestarsi davanti al Poeta.
Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or subito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco.
Le stelle sono un autentico faro guida nella Divina Commedia, una sorta di mappa designata, simbolo di redenzione e luce, come testimonia anche il finale trionfale che segna l’uscita di Dante e Virgilio dall’Inferno: E quindi uscimmo a riveder le stelle che trova il proprio significante parallelo nel finale del Paradiso: L’amor che move il sole e le altre stelle, emblema della perfezione divina, mistero eterno della vita e dell’universo. Tutte e tre le cantiche della Divina Commedia si concludono con la parola “stelle”; non si tratta di un caso, è una scelta insistita, voluta, che Dante aveva mutuato dal suo “Maestro e il suo autore”, Virgilio, che invece concluse le sezioni della prima e della decima Ecloga dell’Eneide con la parola “umbrae”. Dalle tenebre alla luce: Dante capovolge l’oscurità virgiliana nella luminosità delle stelle.
Il simbolismo stellare riveste un ruolo significativo nel Purgatorio, dal quale il poeta di nuovo esce “puro e disposto a salire le stelle”, dove troviamo le quattro stelle che brillano nel bel cielo chiaro e rappresentano idealmente le quattro virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza). Dopo averle osservate a lungo Dante lamenta che esse non possano essere viste anche dagli uomini.
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Le stelle cadenti in Shakespeare
Un altro poeta delle stelle è stato Shakespeare, che ne parla in Romeo e Giulietta come emblema dell’amore: un lampo che finisce nelle notti d’estate, dice Romeo alla sua amata, una metafora che ricorda le stelle cadenti. L’amore tra i due giovani amanti viene descritto simile al lampo fugace e luminoso di una stella.
Improvviso, inaspettato, rapido,
troppo simile al lampo che finisce
prima che si dica “lampeggia”.
Buona notte, mio amore!
Questo germoglio d’amore che si apre al mite vento dell’estate,
sarà uno splendido fiore quando ci rivedremo ancora.
La definizione era ribadita da Shakespeare nel prologo in questi termini:
Così è amore, e non è amore ciò che così non è: potere a cui niente può opporsi, neanche il tempo, cui l’amore occorre assai di più di quanto all’amore occorra il tempo.
L’immagine delle stelle ritorna anche nell’Amleto, dove Shakespeare esprime un concetto molto più complesso che getta una nuova luce sulle sue conoscenze astronomiche. Il Bardo infatti già comprendeva, all’inizio del Seicento, che le stelle vivevano di luce propria e fossero sorgenti di calore e che fosse la Terra a muoversi attorno al sole e non viceversa. Nella lettera d’amore che Amleto scrive a Ofelia troviamo queste parole:
Dubita che le stelle siano fuoco,
dubita che il sole si muova,
dubita che la Verità sia mentitrice,
ma non dubitare mai del mio amore.
Le vaghe stelle dell’Orsa di Leopardi
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l’aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l’aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de’ servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Nelle Ricordanze (1829) Leopardi cita le Vaghe Stelle dell’Orsa come illustri spettatrici della sua infanzia e giovinezza e testimoni delle sue illusioni perdute. Diventano anche delle compagne, delle rassicuranti ascoltatrici dei sogni del poeta. Le “vaghe stelle dell’Orsa” illuminavano con il loro bagliore rassicurante il giardino di casa Leopardi. La contemplazione delle stelle era un’attività cara al poeta dell’Infinito che nel finale del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia sogna di avere le ali per “volar sulle nubi e noverar le stelle una ad una”.
“La vertigine” di Giovanni Pascoli
Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!Su quell’immenso baratro tu passi
correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:se mi si svella, se mi si sprofondi
l’essere, tutto l’essere, in quel mare
d’astri, in quel cupo vortice di mondi!
Nella vertigine del cielo il poeta si smarrisce: qui le stelle sono un baratro in cui Pascoli sente di perdersi, diventano l’emblema del suo smarrimento esistenziale.
“L’imbrunire” di Giovanni Pascoli
Cielo e Terra dicono qualcosa
l’uno all’altro nella dolce sera.
Una stella nell’aria di rosa,
un lumino nell’oscurità.I Terreni parlano ai Celesti,
quando, o Terra, ridiventi nera;
quando sembra che l’ora s’arresti,
nell’attesa di ciò che sarà.Tre pianeti su l’azzurro gorgo,
tre finestre lungo il fiume oscuro;
sette case nel tacito borgo,
sette Pleiadi un poco più su.Case nere: bianche gallinelle!
Case sparse: Sirio, Algol, Arturo!
Una stella od un gruppo di stelle
per ogni uomo o per ogni tribù.Quelle case sono ognuna un mondo
con la fiamma dentro, che traspare;
e c’è dentro un tumulto giocondo
che non s’ode a due passi di là.E tra i mondi, come un grigio velo,
erra il fumo d’ogni focolare.
La Via Lattea s’esala nel cielo,
per la tremola serenità.
L’immensità del cielo notturno diventa invece rassicurante nei versi de L’imbrunire, dove l’eterna metamorfosi del cielo stellato sembra contenere il senso della vita. La luce delle stelle qui ha una potenza rasserenante.
“Stella” di Giuseppe Ungaretti
Stella, mia unica stella,
nella povertà della notte, sola,
per me, solo, rifulgi,
ma, per me, stella
che mai non finirai d’illuminare,
un tempo ti è concesso troppo breve,
mi elargisci una luce
che la disperazione in me
non fa che acuire.
Nella stella di Ungaretti è racchiusa, al contempo, un’angoscia a una speranza. Scritta presumibilmente nel 1866 questa poesia appartiene alla stagione dell’ultimo Ungaretti e alla sua riflessione sul tempo: l’eterna luce della stella si oppone al tempo breve dell’uomo, questa dicotomia è sancita dall’apostrofe alla stella “non finirai mai di illuminare”.
“Le prime stelle” di Rainer Maria Rilke
Ardono i vetri sulla casa muta.
Tutto il giardino è un olezzar di rose
Alta distende sull’etere fermo,
tra i larghi abissi delle nubi bianche,
l’ali, la Sera.Una squilla si versa sulle aiuole,
limpida voce di mondi celesti.
Furtiva, sulle pallide betulle
colme di sussurrìi, veggo la Notte
che accende lenta nello scialbo azzurro
le prime stelle.
Ne Le prime stelle il poeta tedesco Rainer Maria Rilke descrive la traiettoria dell’animo che si lancia in una ricerca di senso possibile. Nei versi di Rilke sovente l’immensità dell’animo umano si trasfigura nel cielo e la sua ricerca di infinito è data dalla “misura delle stelle”.
“Cercavo te nelle stelle” di Primo Levi
Cercavo te nelle stelle
quando le interrogavo bambino.
Ho chiesto te alle montagne,
ma non mi diedero che poche volte
solitudine e breve pace.
Le stelle ritornano come simbolo di amore e predestinazione nella poesia di Primo Levi dedicata alla moglie Lucia Morpugno, di cui riportiamo un estratto. Cercavo te nelle stelle fu scritta nel febbraio 1946, quando ancora l’esperienza di Auschwitz era per Primo Levi un ricordo recente, una ferita aperta che, ora lo sappiamo, non si sarebbe mai rimarginata.
“La stella cadente” di Trilussa
Quanno me godo da la loggia mia
quele sere d’agosto tanto belle
ch’er celo troppo carico de stelle
se pija er lusso de buttalle via,
ad ognuna che casca penso spesso
a le speranze che se porta appresso.
La Notte di San Lorenzo è cantata anche dal poeta romanesco Trilussa che ironizza sul fatto che il cielo possa permettersi il lusso di buttare via le sue stelle, come se fosse così carico di gioielli scintillanti da poterne fare a meno. Con ironia il poeta paragona la stella cadente alla speranza, ma alla speranza perduta: ogni stella che cade ha perso, afferma lui in un rovesciamento irriverente del desiderio che nutre il 10 agosto, la propria speranza di essere stella. Viene formulata così, con ironia sagace, la natura provvisoria dei desideri e delle aspirazioni umane.
“Confusione di stelle” di Alda Merini
Si mutarono in sogni (e morti) i migliori
pensieri; un’eccezione ancora intatta
è quella per te dovuta alla tua nascita
di sogno senza risveglio, e non d’altra
sostanza è fatta d’amore la follia che unisce l’universo.
Le stelle, nella poesia di Alda Merini, dischiudono gli orizzonti infiniti del pensiero e una trama d’amore e follia che è la sostanza stessa dell’universo. Anche la poetessa si cerca nei punti luminosi del cielo stellato e vi ritrova il riflesso dell’amore e del caos, il sogno senza risveglio che è stata la sua vita.
“Cadenti dal cielo” di Wisława Szymborska
La magia se ne va, benché le grandi forze
restino al loro posto. Nelle notti d’agosto
non sai se la cosa che cade sia una stella,
né se a dover cadere sia proprio quella.
E non sai se convenga bene augurare
o trarre vaticini. Da un equivoco astrale?
Quasi non fosse ancor giunta la modernità?
Quale lampo ti dirà: sono una scintilla,
davvero una scintilla d’una coda di cometa,
solo una scintilla che dolcemente muore –
non io sto cadendo sui giornali del pianeta,
è quell’altra, accanto, ha un guasto al motore.
Canta la bellezza della notte più luminosa d’agosto la premio Nobel Wisława Szymborska e lo fa con la voce potente di una poetessa moderna. Le stelle cadenti diventano così un pretesto per interrogarsi sulla traiettoria del destino umano: “una scintilla che dolcemente muore”, rivista anche in chiave ironica con la consueta verve di Szymborska che sa sempre strappare un lampo di luce, pure nel buio più profondo. Siamo anche noi, tutti noi, scintille di luce in fondo.
La metamorfosi uomo-stella è definitivamente compiuta.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le poesie sulle stelle: Dante, Pascoli, Leopardi, Ungaretti
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GIACOMO LEOPARDI, CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA (vv. 84-98)
E quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so.
Per la "notte delle stelle" meravigliosi anche questi versi.
Grazie per la splendida " antologia" e i mai superficiali approfondimenti. Milena Lasaponara