Le ricordanze è una poesia di Giacomo Leopardi. Scritta nel 1829, la poesia appartiene ai cosiddetti Canti pisano-recanatesi (o Grandi idilli).
Così come suggerisce il titolo, al centro di questa poesia c’è la ricordanza: Leopardi, tornato dopo qualche anno a Recanati (il "natio borgo selvaggio"), esplora le memorie legate al suo passato. La casa paterna, il paese natale, se stesso in gioventù: questi gli oggetti del ricordo del poeta, che esplora e misura la sofferenza inflitta nella vita a lui e a tutti gli esseri umani, vittime delle illusioni infrante dell’infanzia e dell’adolescenza.
La poesia è una canzone libera leopardiana, composta da 173 endecasillabi sciolti divisi in sette strofe di lunghezza differente.
Vediamo insieme il testo, la parafrasi e l’analisi del testo de Le ricordanze.
Le ricordanze: il testo
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l’aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l’aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de’ servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.Nè mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di se, ma perchè tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l’allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell’arida vita unico fiore.Viene il vento recando il suon dell’ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M’era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vóti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m’avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l’avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell’imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L’esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d’affanno.E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d’angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell’acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
De’ miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai co’ silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?O Nerina! e di te forse non odo
Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond’eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
E’ deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L’antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D’ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Parafrasi
Belle stelle dell’Orsa, non avrei mai creduto di tornare a contemplarvi ancora dopo così tanto tempo come facevo una volta, mentre scintillate nel giardino della casa di mio padre, e parlare con voi dalle finestre della casa che fu mia quando ero un adolescente e dove conobbi la fine delle gioie della mia vita.
Quante immagini e quante fantasie un tempo mi creavo nei pensieri vedendo voi e le altre stelle vicine nel cielo! Quando seduto sul prato, silenzioso, trascorrevo le mie serate scrutando il cielo e ascoltando il canto della rana lontana nei campi. E la lucciola volava sulle siepi e sulle aiuole, mentre i viali profumati e i cipressi lontani nella selva sussurravano al vento; e nella casa paterna risuonavano le voci e il lavoro dei servi. E quali pensieri immensi e dolci sogni mi ispirò guardare il mare lontano, e i monti azzurri che scopro dalla casa e che un giorno sognavo di varcare, credendo di trovare al di là dei mondi misteriosi e immaginando per la mia vita una felicità sconosciuta. Ignaro del mio destino e di quante volte in seguito avrei scambiato questa vita, dolora e priva di gioie, con la morte senza alcun rimpianto.
Nemmeno il cuore mi aveva avvisato che sarei stato condannato a consumare la mia giovinezza in questo borgo selvaggio in cui sono nato, fra gente ignobile e incivile; per questa gente, la cui voglia di conoscenza e la cultura sono parole strane e spesso oggetto di scherno; questa gente che mi odia e mi rifugge non per invidia, poiché non mi ritiene migliore di sé, ma perché pensa che migliore mi ritenga io rispetto a loro, sebbene io non abbia mai dato segno di ciò.
Qui passo i miei anni, nascosto e abbandonato, senza vita e senza amore, e tra le persone malevoli divento come non sono mai stato, aspro e scortese: qui mi spoglio di pietà e virtù e disprezzo le persone meschine tra cui vivo; e intanto se ne va il tempo caro della gioventù, più caro della gloria e della fama, più caro della luce pura del giorno e dello stesso vivere: ti perdo senza aver avuto un attimo di gioia, inutilmente, in questo soggiorno inadatto all’uomo, con solo gli affanni come unico fiore nella vita arida.
Arriva il vento e fa suonare le campane della torre del borgo. E ricordo che questo suono era per me un conforto quando ero un ragazzino, durante le notti passate nella camera buia, mentre vegliavo a causa di incubi e inquietudini incessanti, sospirando perché arrivassero presto il mattino e la luce del giorno.
Non c’è nulla qui che, vedendolo o sentendolo, non faccia riaffiorare alla mia memoria un’immagine dalla quale prende vita un ricordare dolce.
Dolce di per sé; però poi con dolore arriva il pensiero del presente e un desiderio vano del passato che mi porta a dire: ho esaurito la mia esistenza.
Quella loggia volta a ovest, queste pareti affrescate e i dipinti che raffigurano greggi, e il sole che sorge sulla campagna solitaria mi procuravano mille piaceri nei momenti di riposo dagli studi, quando, dovunque mi trovassi, si trovava vicino a me quella mia capacità di credere nei sogni.
In quelle antiche sale, al riflesso della neve, mentre il vento sibilava forte tutt’attorno
a queste ampie finestre, risuonarono i giochi e le mie grida felici nel tempo in cui si mostra il mistero della vita, duro, indegno, pieno di dolcezza; il ragazzo desidera, come un amante inesperto, la sua vita indelibata, intera, e, ingannandosi, ammira la bellezza del cielo.
O speranze, speranze, dolci inganni della mia adolescenza! Sempre, parlando, io torno a voi; poiché non so dimenticarvi per quanto trascorra il tempo, per quanto anche gli affetti e i pensieri cambino. Fantasmi, io lo so, sono gloria e onore, il bene e i piaceri solo un puro desiderio. E sebbene i miei anni siano vuoti, sebbene oscura e solitaria sia la mia vita mortale, so bene che la fortuna ha ben poco da prendersi da me.
Ma, ahimè, ogni volta che vi ripenso, o mie speranze antiche, e che penso al mio fantasticare sul futuro e lo confronto con questa mia vita così inutile e priva di scopo e così dolorosa che solo la morte mi resta dopo aver sognato grandi speranze, sento stringermi il cuore e sento che non mi riesco a rassegnare del tutto al mio destino.
E anche quando questa morte che invoco mi raggiungerà e sarà arrivata la fine delle mie sventure; quando per me la terra sarà una valle straniera e dal mio sguardo il futuro fuggirà; mi ricorderò sicuramente di voi, mie speranze, e quell’immagine mi farà ancora sospirare, e renderà amaro il mio aver vissuto invano; e l’amarezza del ricordo andrà a guastare perfino il giorno in cui avrò la gioia di cessare di vivere.
E già in adolescenza, in quel primo tumulto di felicità, di angosce di desideri, più volte ho invocato la morte e a lungo stetti seduto là, su quella fontana, pensando di fermare dentro di me l’acqua di quelle speranze, il dolore di questa mia vita.
Poi, ridotto in pericolo di vita da una malattia, rimpiansi la mia bella giovinezza il fiore dei miei giorni così poveri di gioie, che così precocemente appassiva; e spesso, la sera tardi, seduto sul letto che, testimone delle mie sofferenze, scrivendo dolorosamente poesie alla luce fioca, piansi col silenzio e la notte come unici compagni, l’energia della vita che mi abbandonava. E proprio nel momento in cui la vita mancava, cantai un canto funebre.
Chi può mai ricordarvi senza sospiri, o primi momenti della mia giovinezza, giorni pieni di lusinghe indescrivibili, quando al giovane estasiato sorridono le fanciulle e tutto intorno ogni cosa sorride a gara, l’invidia tace, ancora addormentata oppure innocua, e quasi (meraviglia incredibile!) il mondo porge la mano destra in aiuto, come volesse scusarsi dei suoi errori, festeggiando il nuovo entrare della vita e facendogli omaggio mostra di accettarlo come suo signore e ritenerlo tale?
Ma quei giorni sono fugaci e si sono dileguati come un lampo. E quale uomo può dire di non aver conosciuto sventura se ormai è trascorsa la bellezza di quell’età, se il suo bel tempo, la sua giovinezza, ahi la giovinezza è oramai finita e spenta?
O, Nerina! E non sento forse questi luoghi che parlano di te? Sei forse caduta dal mio pensiero? Dove sei fuggita, che qui di te trovo solo le ricordanze, o dolcezza mia?
Questa terra mia natale oramai non ti vede più: quella finestra, dalla quale avevi l’abitudine di parlarmi, e dove si riflette mesta la luce delle stelle, è ora deserta.
Dove sei, ora che non sento la tua voce che risuona, quando ogni parola che mi arrivava dalle tue labbra da lontano mi faceva impallidire?
Altro tempo furono i tuoi giorni, amore mio dolce. Passasti. Il passaggio su questo mondo ad altri ora è dato in sorte, l’abitare questi odorati colli.
Ma troppo rapida sei passata e la tua vita è stata breve quasi come un sogno.
Danzavi, tu, nel cammino della vita. La gioia risplendeva intorno a te, e quel fiducioso immaginare intorno all’avvenire e la luce della giovinezza splendevano nei tuoi occhi,
poi spenti dal destino.
Ahi Nerina. Nel mio cuore ancora regno l’amore antico. Quando, a volte, mi trovo a una festa o in gruppo, dico tra me e me: o Nerina, a feste e incontri tu non vai più e più non ti prepari. Se maggio torna, e gli amanti vanno donando canti e ramoscelli alle fanciulle, dico: per te, Nerina mia, la primavera non tornerà mai più, né tornerà l’amore.
Ogni bella giornata, ogni valle in fiore che io guardo, ogni piacere che io sento, mi dico: Nerina ora non ne gode più; i campi e l’aria lei non guarda più.
Ahi, tu sei passata, eterno sospiro mio: passasti e il tuo ricordo acerbo sarà mio compagno in ogni dolce immaginare di tutti i miei teneri sentimenti, di tutti i miei cari e tristi moti del cuore.
Le rimembranze: analisi del testo
In questa poesia si parla di ciò che per Leopardi si può considerare l’essenza della poesia stessa: il ricordo. Come teorizzato nello Zibaldone, perché qualcosa sia poetico è necessario che susciti un ricordo (spesso nato da una fonte uditiva). Un paesaggio, un oggetto, una scorcio: tutto viene poeticizzato se lo si rimembra.
La ricordanza per Leopardi è legata a doppio filo all’indefinito, poiché tutti i contorni si sfumano in un ricordo; le cose sembrano lontane e ne rimane solo un’immagine confusa e abbellita, resa più sentimentale grazie agli occhi della fantasia.
In questa poesia viene messo in scena il ritorno a Recanati di Leopardi, articolato in un confronto tra ciò che è passato e ciò che è presente. Una volta giunto nella casa paterna, il poeta fa sue immagini e sensazioni che aveva sopito sulla sua infanzia, periodo pieno di dolci illusioni e di sogni. Quello era il periodo in cui ancora non aveva idea di ciò che sarebbe stata la vita, con un mondo tutto da esplorare ancora davanti.
Così come in altre poesie di Giacomo Leopardi, il ricordo scatta grazie a un elemento acustico. Altri esempi di questo procedimento possono essere considerato il suono del vento tra le fronde ne L’infinito, che improvvisamente ridesta il poeta, o il canto lontano dell’artigiano ne La sera del dì di festa.
Centrale nel componimento è la riflessione rammaricata sulla gioventù trascorsa e mai vissuta e sulle speranze che hanno caratterizzato quegli anni. Simbolo tanto della gioventù quanto delle sue speranze ormai superate e sempre vivissime è Nerina, la figura femminile che appare nella seconda parte del componimento, legata a una triste e prematura scomparsa. Attraverso Nerina, Leopardi indaga un altro tema fondamentale del componimento: l’amore.
Per queste caratteristiche, Nerina si può considerare specchio e completamento di Silvia in A Silvia.
Le ricordanze riunisce alcuni dei temi fondamentali della poetica leopardiana, così riassumibili:
- contemplazione e immaginazione come spinta poetica
- invettiva a Recanati
- elegia della giovinezza
- elegia della speranza
- amore
Figure retoriche
Il lungo componimento è caratterizzato da numerose figure retoriche. Tra queste, citiamo:
- apostrofe: "vaghe stelle dell’orsa" (è anche una prosopopea), "o speranze", "o Nerina"
- allitterazioni: es. "rana rimota", "errava"-"vento"-"viali"-"selva"-"voci"-"servi", "felicità fingendo"
- enjambements: es. "non credea / tornare", "finestre / di questo albergo", "la vista / di quel lontano mar", "arcana / felicità"
- metafora: "età verde"
- ipallage: "conscio letto"
- metonimia: "allor" (alloro sta per la corona d’alloro, a sua volta metafora della gloria poetica)
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Le ricordanze”: parafrasi e analisi della poesia di Leopardi
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