Leviatan
- Autore: Julien Green
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Longanesi
- Anno di pubblicazione: 2008
Esistono romanzi che hanno la capacità di racchiudere in se stessi una tale quantità di passione - quella che coincide con la originaria "passio" latina - che ogni parola sembra emergere da un abisso senza fine, un pozzo senza fondo da cui non è mai possibile tornare a galla, perché per ogni barlume di luce che si intravede nell’oscurità c’è un ulteriore annegamento nelle profondità delittuose della vita di tutti i giorni.
Questa potrebbe essere, a conti fatti, la definizione ideale del romanzo di Julien Green "Leviatan" (Longanesi, 2008, pp. 275): un nugolo di personaggi delineati con una tale ricerca di particolari, con una tale attenzione al dettaglio più insignificante, che anche quelli più marginali sembrano rivestire il ruolo di protagonisti.
Siamo abituati alla cattiveria dei testi di Green, ne abbiamo avuto prova fin dai tempi di "Adrienne Mesurat" e "Mont-Cinère" (rispettivamente del 1927 e 1926), ebbri di quella sofferta inettitudine del vivere che porta con sé una massiccia dose di crudeltà allo stato puro. Il "Leviatan" non è da meno, anzi.
Immersi in un piccolo borgo della Francia, a pochi km da Parigi, si muovono come marionette, in mano al destino mefistofelico, il signor Guéret, perdutamente innamorato di Angèle, la bella lavandaia che troppo ha da nascondere, la signora Londe, proprietaria di un ristorante che nelle sue mani assomiglia più ad una gabbia in cui creature umane, pigolanti e ciarliere, vengono ammaestrate e rabbonite sotto i colpi della fremente curiosità della donna. E infine la signora Grosgeorge, una stanca e ricca signora sovrastata dalla sete di rivalsa sociale. Le miserevoli esistenze di questi stolti esseri umani - che forse di umano hanno ben poco, se non i vizi e le meschinità - si intrecciano tra di loro, attraversate da un’unica componente, identica per tutte: la sciagura.
Guéret, uomo mediocre e istintivo, borghese privo di ogni ambizione e di qualsivoglia genere di aspettativa, perde la testa per la bella e giovane Angèle, che, pur non ricambiando il sentimento per l’uomo, tuttavia è lusingata dal corteggiamento maldestro e ambiguo dello stesso, di quel signore così poco convincente e allo stesso tempo autentico, sincero nel suo essere imbranato. La fanciulla è colpita da quest’uomo strambo, perché è abituata a ben altro: vecchi impettiti, rattrappiti nei loro cappotti logori di feltro invecchiato, che abusano della sua gentilezza e della sua disponibilità, messa a disposizione proprio da Madame Londe, la vecchia arcigna che deve assicurarsi la costanza dei propri clienti, invogliati a mantenere un legame con il locale proprio per via di Angèle. La bella e giovane Angèle. Già, bella. Fintantoché Guéret, folle d’angoscia e d’amore, dopo aver scoperto ogni cosa sulla vita della ragazza, pur di salvarsi da quell’infausto gioco che gli aveva tolto persino quel briciolo di serenità familiare che gli era rimasto, tenta di ucciderla, col risultato, ancor più beffardamente nefasto, di sfigurarla per sempre. Colto da un ingestibile dolore, Guéret si suicida e così anche per la signora Grosgeorge le cose si complicano: dove trovare un nuovo precettore che aiuti suo figlio a studiare?
Ciò che rende la signora Grosgeorge così amara ed infelice è proprio la disperazione, una disperazione autentica che si accanisce contro di lei in qualsiasi momento e che, spalleggiata dalla noia, alimenta perennemente un’insoddisfazione che sfocia nella violenza psicologica.
"Era tutta inquietudine, per quanto fredda e grave potesse sembrare agli occhi distratti degli altri e nascondeva un cuore ribelle sotto le apparenze di una vita ben regolata".
Come una corda che striscia sotto il collo di ognuno di loro, la sventura tiene unite quelle vite che assomigliano a delle maree, cumuli di paure impilate una sull’altra, continuamente in bilico sull’orlo del precipizio.
Julien Green dà il meglio di sé ogni volta che trasforma un libro in un incubo, dal quale appare impossibile uscire, perché fotografia verosimile di tutto ciò che di più tragico la realtà ha da offrirci. Nell’estremo tentativo di recuperare un gruzzolo di normalità - e perché no? di umanità e Bellezza - lo scrittore parigino (sebbene nato da genitori entrambi americani) si lascia andare all’inflessibile fascino del disastro, muovendosi all’interno di uno stile sobrio, elegante e ricercato, pur nella complessiva semplicità della forma. Come dice Walter Benjamin nel suo saggio introduttivo al libro:
"Pazienza, ecco la parola che comprende tutte le virtù di questo autore e insieme tutto ciò che manca ai suoi personaggi".
Julien Green, nell’impassibilità della figura, lascia che dalla sua penna traspaia un’imperturbabilità che gli consente di osservare quei poveri scalmanati dei suoi personaggi da lontano, lucidamente, senza esserne eccessivamente coinvolto.
La bellezza delle espressioni metaforiche, la crudezza e l’agilità delle descrizioni, nonché la trama, sempre originale e mai prevedibile, portano il lettore a sospettare una certa visionarietà di questo poeta della quotidianità maledetta.
Incantevole.
Leviatan
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