Linea intera, linea spezzata
- Autore: Milo De Angelis
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2021
Il titolo della nuova raccolta poetica di Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021), condensa icasticamente e in forma dilemmatica il doppio sguardo, dentro e fuori dal Tempo, in cui la realtà concreta e oggettuale e le ombre di un’essenza noumenica, metafisica, si urtano in una dialettica incessante di totalità e frammentazione (tema che attraversa tutta l’opera del poeta) che anela, mediante un’istantanea possibilità di visione a una pur precaria realizzazione.
Lo sforzo e la tensione a cui il poeta espone la parola, spingendola a un limite estremo di rarefazione, è equiparabile alla concentrazione dell’atleta un istante prima dell’agone; al gesto perentorio ed essenziale che risolve la tecnica in un’idea esatta che fonde insieme contemplazione e azione nella forma di una totalità ingannevole forse, ma assoluta. “Ritrovare una sintassi” (titolo di una lirica di Millimetri, Einaudi, 1983) è pertanto la condizione e lo scopo ultimo dell’atto poetico che si concentra ed espande nel perimetro in cui agiscono pensiero e parola, sciolte da ogni necessità di definizione, integre e significanti nella plastica realtà dell’Evento che “conduce l’universo/ in un solo punto illuminato” (Sala Venezia). In un testo della nuova raccolta intitolato “Dal balcone” (titolo, parrebbe, di ascendenza montaliana) il poeta si rappresenta nella fissità di un soggetto anonimo e devitalizzato ristretto all’esile feritoia di uno sguardo che osserva impartecipe il fluire dell’esistenza nel rettangolo circoscritto del proprio sguardo:
“Dal balcone dell’ultimo piano ora guardi/la città notturna, l’infilata dei grattacieli che sembrano/una barriera corallina e intorno i vecchi palazzi [...] un concilio segreto di secoli che si parlano sottovoce/sussurrano al tempo di fermarsi e diventano/la scorza staccata dal suo tronco/ciò che resta /dell’infinita moltitudine in cui sei immerso anche tu/e guardi lì sotto il bar aperto, l’uomo con l’impermeabile/mentre racconta una storia sempre uguale/alla ragazza vestita di rosso che beve /dallo stesso bicchiere e sorride lievemente”.
E purtuttavia, permane nella facoltà del guardare una responsabilità, al pari delle "sentinelle" evocate in un testo del libro di esordio (Somiglianze, Guanda, 1976) che “si tengono in disparte/ con parole, simboli di seconda mano”. Nell’inerzia del vivere (“adesso devi restare, devi restare” ribadisce il poeta in “Bowling dei fiori”) affiora una forza tangibile e primigenia che l’io loquente contrappone al magma confuso del presente, un movimento agonistico di recupero che equivale a un “nostos”; come se nello smarrimento vi fosse la condizione ineluttabile di un ritrovarsi.
“Devi restare, devi dare alla notte/la sua dizione più precisa, devi condurre il mondo intero/in queste vetrate, giungere al cuore del punteggio.”
Ed ecco pertanto che le accumulazioni caotiche, anziché meri espedienti retorici, nel lirismo antiretorico di questi testi acquistano il rilievo di simboli disincarnati, privi di vernice e di colori aggiunti, in cui materia e spirito sono pervasi, come in una (s)composizione cubista, della stessa essenza, della magica ambivalenza della realtà, laddove il panno verde e i bordi di legno di un biliardo sono come “un prato dell’infanzia”(in “Sala Venezia”).
La parola poetica si configura come un “Teatron”, un luogo dello sguardo, in apparenza astratto e impersonale, in cui tuttavia la memoria agita dal ricordo attinge il nucleo intatto del dato fenomenico, la scheggia, il barlume apparentemente inconsistente che la percezione rielabora e trasfigura in un’immagine potente e vitale, come nella pronuncia di un oracolo, nel punto e nel momento esatto in cui pare disgregarsi; e nell’attrito con le cose, lasciandosene attraversare e ferire, recupera la sua unità, trovando “il suo vero nome”.
Occorre forse perdersi e frantumarsi in una moltitudine per trovare una solitudine in cui consistere interi? Dalla ”scorza staccata dal tronco” è possibile ancora ricostruire il segno che rimanda al gesto innato e naturale di una creazione? Nella ripetizione delle azioni e dei giorni è ancora percepibile l’eco scheggiata di una parola essenziale, radice di senso del viaggio che, ombre tra le ombre, millimetricamente conduciamo nel silenzio e nell’attesa, nella precaria fantasmagoria della nostra esistenza?
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