Frammenti di luce. Liwâ’ih
- Autore: Abd al Rahmân Jâmi
- Categoria: Poesia
La conoscenza della cultura araba a livello di massa è molto scarsa, ciò per motivi storico-politici che hanno radici lontane e albergano nella paura di un mondo "altro", diverso, sentito come un pericolo nei confronti della cristianità. Il conflitto, dal tempo delle crociate, è diventato un conflitto religioso. Ne prendiamo atto con disappunto.
Forse l’unico testo letterario noto e accettato universalmente di quella realtà che resta "estranea" è Le mille e una notte, la cui migliore traduzione è quella di sir Richard Francis Burton, console del Regno Unito, letterato, orientalista morto a Trieste nel 1890. Ma non è di lui che desidero parlare, sebbene Burton sia una pietra miliare per chi si accosta alla sapienza e alla spiritualità musulmana.
Spicca come una luce-guida per il mistico l’opera del poeta persiano sufi Abd al Rahmân Jâmi (1414 - 1492), del quale Sergio Foti ha curato la traduzione, Frammenti di luce. Liwâ’ih (Libreria Editrice Psiche, 1998, pp. 80).
L’illuminazione sufi fa subito pensare alla filosofia zen; la differenza tra le due sta nel dialogo continuo con l’Essere, tipico del "muslim" (sottomesso), mentre nello zen predomina lo stupore sacro che viene percepito entrando profondamente dentro ogni aspetto della realtà in modo estatico.
Nella visione di Jâmi si sottolinea l’assoluta trascendenza dell’Essere rispetto alle cose create, l’assoluta lontananza e alterità divina che però ha sempre una relazione con gli enti, compreso l’uomo. Il sentimento che anima la raccolta di versi e brevi prose è dunque paradossale: appartenenza a Dio e però impossibilità di paragonarsi a Lui. Tutto ciò viene espresso con metafore forti e decisamente appassionate:
"Chi sono io, chi mi credo? / Con i miei attaccamenti, sarei solo compagno dei Suoi cani: /so che non posso raggiungere la Sua carovana, ma questo mi basta: / che da lontano arrivi il richiamo della marcia."
È evidente la necessità di un cammino da compiere, l’impossibilità di raggiungere l’Essere (la carovana), eppure l’impossibilità, data da grandezze incommensurabili, non genera angoscia.
Non è neppure possibile lodare Dio in modo conveniente, e sappiamo bene che per il musulmano è del tutto sconveniente rappresentarlo con una figura umana:
"Là, dove la tua grandezza è perfetta / il mondo è una goccia nel tuo mare di doni / Come potremmo lodarti adeguatamente? / Solo la Tua lode è degna di Te."
L’annullamento di sé è tipico di ogni monismo. L’unica realtà è l’Assoluto. Eppure nulla è freddo in questi versi, nulla è solamente cerebrale, tutto è fuoco d’amore. Le nostre abituali preghiere, i nostri ragionamenti appaiono una pallida ideazione e tiepido sentimento se paragonati a questi versi:
"Nel mondo dello spogliamento, nessun segno a distinguermi / nella storia dell’Amore, non avere parole - è giusto così / [...] parlare da semplice interprete - è giusto così. / Ho infilato solo alcune perle, con lo splendore degli intelletti / nella trasmissione di una tradizione elevata."
L’Amore è quello con la A maiuscola, a significare la dedizione.
Il libro è composto da 36 illuminazioni, più una conclusione. La prima illuminazione afferma:
"Dio non ha creato alcun uomo con due cuori."
Per l’uomo, la sola felicità è amare solo Dio.
Via via si giunge a comprendere qualcosa degli attributi divini; il più grande tra questi è il bene, come accade anche nel platonismo e nell’ermetismo, sottolinea Foti in una nota.
Nella trentaseiesima illuminazione si giunge a gustare la "teofania presenziale dell’esistenza": ecco dunque qui, nel punto di arrivo, a me sembra, che la visione del "muslim" diventi identica a quella del monaco zen. Entrambi "vedono" ovunque theos ("ogni cosa è piena di dei", sentenzia similmente Talete, il presocratico). Ed entrambi compiono un processo di distacco, per arrivare all’unione piena con la Presenza. Siamo nuovamente di fronte al grande paradosso: scomparire per essere.
Ottenere la grazia è l’esito:
"Una tua grazia, e cento specie di bisognosi sono formate / un’altra grazia, e ciascuno ha ciò che richiede. / La prima dura da tutta l’eternità, e la seconda / da sempre appare, subito dopo l’altra. "
La conoscenza non è possibile senza la grazia. La metafisica è strettamente congiunta all’atteggiamento devozionale.
Entrambi, conoscenza e amore, sono possibili perché si svela la bellezza come pura idea trascendente:
"Tira una riga sul brutto e sul bello, / tira via il velo che occulta lo splendore segreto: / Ritira i piedi nella veste, la testa sul petto: / non è fuori di te, la luce di Quella bellezza."
Come non paragonare ciò alla formula sanscrita: "Tat tvam Asi"? "Tu sei Quello."
Il poema termina con:
"Si può restare muti in lui: ma per chi intende parlare / meglio vale riempirsi la bocca di terra."
Torna il sentimento di ineffabilità. Il divino Essere non può essere detto. E in ciò è bellezza e gioia. Teologia negativa che, a distanza e circa due secoli prima, caratterizza l’illuminazione di Meister Eckhart.
In fondo, i mistici di ogni tempo e religione sono tutti simili. E predicano tutti la fratellanza, tra gli uomini e con l’universo, la natura da rispettare.
Frammenti di luce. Liwâ'ih
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