Lo zoo di Venere
- Autore: Luca Pacilio
- Genere: Arte, Teatro e Spettacolo
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Gremese
- Anno di pubblicazione: 2019
Il cinema di Peter Greenaway è fatto di cose visibili e invisibili. Molte cose: principali e secondarie. L’allegoria pittorica alla Vermeer combinata all’idea freudiana di eros e thanatos. L’ossessione tassonomica e il puro barocchismo. L’apparente provocazione e di contro l’atto di vedere restituito alla sua matrice basica. Il cinema di Peter Greenaway sono, insomma, queste e diverse altre cose e Lo zoo di Venere è il film che le comprende tutte. È un film-manifesto, uno sfrontato trait-d’union tra la rivelazione antecedente di I misteri del giardino di Compton House (1982) e la conferma a seguire di Il ventre dell’architetto (1987). Lo zoo di Venere arriva allo sguardo come un pugno allo stomaco. Sapete uno di quei rovinosi incidenti stradali che non possiamo fare a meno di guardare? Una cosa così, con l’aggravante della raffinatezza espressiva, se mi spiego.
La trama del film, per il poco che conta, gira e rigira sulla fissa per il disfacimento dei corpi. Dopo la morte in un incidente delle rispettive mogli, due gemelli zoologi declinano il concetto tra teoria e prassi. Si parte da una mela marcia, si continua lungo l’asse evolutiva darwiniana (otto tappe) si arriva al corpo umano, per un apologo tanatologico compreso nel prezzo: la morte è necessaria per il perpetuarsi della vita. Come scrive Luca Pacilio, a pagina 14 e 15 dell’efficace monografia dedicata alla pellicola (“Lo zoo di Venere”, Gremese 2019):
Giungla di riferimenti (scientifici, figurativi, letterari, mitologici, filosofici, religiosi), intrico di metafore e simboli, groviglio di storie che lascia disorientati, Lo zoo di venere, lungi dall’essere un’opera assertiva, nega le certezze preferendo far proliferare dubbi e domande, invito a un viaggio oscuro che verrà vissuto da ciascuno spettatore in maniera differente: ognuno ci vede qualcosa di diverso, le esperienze di visione non sono mai uguali l’una all’altra.
Proprio così: il film è sfaccettato. Labirintico. Sotto alcuni aspetti anti-narrativo. Apoteosi del morboso secondo alcuni, liberatorio inno alla matericità secondo altri. Resta il fatto che non si dimentica. Si vede e si rivede, piuttosto. Per addentrarsi meglio fra la ridda di rimandi disseminati e sottaciuti qua e là. Sotto-testi filmici che Luca Pacillo esplora a mente fredda, senza smarrirsi. Consegnandoci un saggio dalle intuizioni acute e la scrittura accessibile, pure se in presenza dell’aggrovigliato specifico greenawayano. È cinema anche (soprattutto?) il cinema autoriale e poco commerciale di Peter Greenaway: Pacillo ce lo dimostra, riuscendo persino a farci venir voglia di andare a ri-vedere Lo zoo di Venere e i labirinti abissali che contiene. Come ogni testo della collana “I migliori film della nostra vita”, anche questo sfoggia un ricchissimo apparato fotografico a colori.
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