Memorie di un ex Capo-Brigante
- Autore: Ludwig Richard Zimmermann
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2007
Tra le testimonianze maggiormente avvincenti sul brigantaggio meridionale, quella di Ludwig Richard Zimmermann è una tra le più belle. Questo scrittore tedesco nacque nel 1838 ad Alsfeld, in Germania, e fu battezzato con rito evangelico. Arruolato nell’esercito austriaco, partecipò alla battaglia di Solferino (24 giugno 1859), rimanendo ferito. Non pago e voglioso di vedere ancora la guerra in faccia, pur essendo fortemente anticlericale, scelse di partire per il sud della Penisola e di unirsi ai combattenti legittimisti in lotta contro il neonato Regno d’Italia; servì la loro causa per poco più di un anno e nel 1868 pubblicò un resoconto della sua esperienza: Erinnerungen eines ehemaligen Briganten-Chefs.
Nel 1867, a Graz, capoluogo della Stiria, fondò il giornale radicale "Freiheit" (Libertà), che gli costò vari problemi con la giustizia per le sue polemiche irreligiose. Assicuratosi l’immunità dopo un passato da brigante, tornò in Italia sul finire degli anni sessanta dell’Ottocento, come delegato dei liberi pensatori d’Austria al famigerato Anticoncilio ecumenico che si tenne a Napoli il 9 e il 10 aprile 1869. Morì nel 1887.
Dopo una biografia del genere è quantomeno naturale domandarsi che ci facesse un personaggio simile, un protestante mangiapreti, a servizio di una monarchia cattolica.
"Come poteva [costui] spiegare la propria partecipazione, appena sei-sette anni prima, alla guerriglia dei briganti che combattevano per la causa legittimistica dei Borboni con l’appoggio della parte più retriva del clero cattolico e del governo pontificio?"
Si chiede la studiosa Francesca De Caprio in un suo saggio sull’argomento (Un giornalista ed ex-brigante borbonico: Ludwig Richard Zimmermann, in De Austria et Germania. Saggi in onore di Massimo Ferrari Zumbini, 2018).
Il primo in Italia a studiare lo scritto di Zimmermann fu Benedetto Croce, ma l’opera è stata pubblicata in una traduzione integrale nella nostra lingua solo nel 2007 da Erminio de Biase, che l’ha fatta riscoprire al pubblico con il titolo Memorie di un ex Capo-Brigante, volume stampato da Arte Tipografica Editrice Napoli.
Si tratta di un testo molto suggestivo e scritto con maestria. Nella prefazione il soldato introduce il suo racconto chiarendo la sua posizione:
"Quando a Roma, nel 1861, mi misi a disposizione di Francesco II, ero un ufficiale ventiduenne senza precise idee politiche, che, in un primo momento, cercava la battaglia solo per amore del combattimento. La sfortuna della giovane coppia reale in esilio, però, esercitava un fascino particolare sul mio animo ancora molto romantico, senza, tuttavia, [spingermi a] provare alcun entusiasmo per il principio del legittimismo".
La sua fu una scelta strana, ma tra tanti delinquenti comuni che ingrossarono le fila dei briganti, l’autore di queste memorie fu almeno un vero soldato e sicuramente agì con molta più correttezza di altri:
"Sebbene ora, da un punto di vista politico, io debba condannare la mia fazione di allora, in ogni caso, non avrò mai da vergognarmene; con serena coscienza, ritorno spesso con la mente ad una lotta, che – anche se fallita e sfortunata fin dall’inizio – evidenziò innumerevoli, luminosi esempi di fedeltà, di coraggio e di sacrificio incondizionato".
In cuor suo, Zimmermann si augurava che un giorno gli italiani potessero arrivare a rivalutare i cosiddetti briganti e il suo principale obiettivo nella stesura di questo libro fu quello di confutare le parole di chi denigrò la resistenza dei "poveri montanari che conducevano la battaglia della disperazione contro le grandi idee dei tempi moderni".
Ma in realtà il tedesco ci restituisce un quadro diverso, più confuso e assai meno lodevole di quello riassunto nella sua introduzione: i briganti furono in gran parte dei criminali comuni che agirono i maniera disordinata, il governo borbonico in esilio cercò di farseli alleati, ma al suo interno esso era indebolito dalla presenza di aristocratici inetti e oziosi e non riuscì mai a disciplinare i militi che dicevano di essere agli ordini del Re.
Lo scrittore arrivò nella città eterna la sera del 29 agosto 1861 e uno degli aspetti più utili del suo libro sono le descrizioni degli ambienti in cui si muovevano i cospiratori:
"In nessuna città, intorno al 1861-62, si raccolsero tante fazioni così attive come nella...“divina Roma”. Vi coabitavano, in stretto contatto, i papalini, i piemontesi (esattamente regio/italiani), i mazziniani (esattamente italiani/repubblicani), i francesi (l’illegittimo frutto delle trame napoleoniche) ed infine, in qualità di ospiti, ...i borbonici".
Francesco II, ancora una volta, si circondò di incapaci:
"Il peggior nemico del Partito Borbonico era uno stuolo di emigranti o di ospiti napoletani che vivevano della Causa Reale senza, però, aiutarla. Questi signori non sono mai usciti oltre il perimetro di Roma in “difesa della sacra Causa”. Essi erano in ogni momento “impegnati nei preparativi”, sempre “in procinto di entrare con un corpo di volontari in questa o in quella provincia”, per il “completamento dell’impresa” essi necessitavano di continuo, solamente ancora di questa o di quella somma; ogni giorno volevano “morire per la Santa Causa”, portando gigli dorati sui bottoni della camicia (come i cavalieri guelfi...ronzini rampanti) e, di quando in quando, in riconoscimento dei loro “fatti”, chiedevano l’una o l’altra croce di cavaliere. Col denaro che questi furfanti ingozzarono, si sarebbe potuto armare un piccolo esercito".
“Luigi Riccardo” finì a servire i Chiavonisti, ossia le truppe di “Chiavone”, Luigi Alonzi (1825-1862), spesso considerato il più ridicolo tra i briganti, vanaglorioso e pieno di boria, "indiscutibilmente inetto ma altrettanto indiscutibilmente indispensabile a causa della sua popolarità". Tra queste pagine si ha l’impressione che nella bolgia del brigantaggio gli ufficiali stranieri fossero gli unici capi ad avere polso, ed è probabilmente per questa ragione che erano guardati con diffidenza.
Purtroppo oggi presso l’opinione pubblica c’è molta confusione e i problemi hanno avuto origine circa una decina di anni fa. Nel 2010 il giornalista Pino Aprile ha iniziato a venire alla ribalta con le sue ormai celebri teorie revisionistiche sul Risorgimento, l’assillante retorica che costui ha iniziato a propagandare si basa essenzialmente su un inedito miscuglio di progressismo becero, vittimismo, nostalgismo scadente e frasi di odio verso i "settentrionali" (si ricordi ad esempio il suo ingiustificabile astio nei confronti dei veneti). Il pubblicista ha accresciuto la sua fama con la ripetizione asfissiante di notizie storiche false, tese a presentare il Regno delle Due Sicilie come una sorta di superpotenza europea e di paradiso terrestre. I testi di questo giornalista e dei suoi imitatori hanno fatto molto danno, poiché non presentano una critica giusta e sensata al processo risorgimentale, basata su dati attendibili, bensì una raccolta di tesi distorte. Esistono decine di testi storici di valore che propongono anche delle critiche legittime e sensate al Risorgimento, ma oggi questi volumi seri e documentati non godono di alcun successo nelle vendite, mentre i libri di Aprile – incredibilmente – sono diventati dei best seller.
Da ormai dieci anni, Aprile e i suoi seguaci – che non hanno nulla a che vedere con la cultura cattolica o con il legittimismo – hanno trasformato la storia del Mezzogiorno in una barzelletta e tuttora, con il loro proverbiale isterismo, continuano a opporsi a ogni riflessione storica che possa smentire le loro mistificazioni. Secondo loro i briganti furono tutti, indistintamente, degli eroi senza macchia e senza paura, ma costoro ignorano che le bande perseguitarono innanzitutto pastori e contadini innocenti, e inoltre, spesso, non ebbero alcuna luce ideale, ma si limitarono a mettere in atto rapine e saccheggi ai danni dei civili indifesi.
In quel grande marasma che fu il brigantaggio, Memorie di un ex Capo-Brigante si pone come la storia di un uomo che va a combattere una guerra senza regole, per soddisfare il suo idealismo, ma si trova a confrontarsi con banditi ingestibili guidati da capi senza onore. Si viene colpiti dall’ostinazione di Zimmermann e dalla sua fermezza; quasi con una certa noncuranza, egli prese una decisione e la portò avanti sino alle sue estreme conseguenze: iniziò una guerra e continuò a lottare sino a quando gli fu possibile farlo.
Il traduttore, nella sua nota introduttiva, cerca di difendere Chiavone, ma le sue argomentazioni sono deboli, poco utili e non reggono il confronto con le notizie pervenuteci sul personaggio storico. Luigi Alonzi era considerato un vigliacco e fu indubbiamente un megalomane, finì giustiziato, il 28 giugno 1862, per ordine di Rafael Tristany (1814-1899), uno degli ufficiali stranieri inviati dai Borbone in suo ausilio.
Le figure pulite e degne furono ben altre. Nobile, coraggioso e in buona fede fu ad esempio il generale carlista José Borjes (1813-1861): venne in Italia per aiutare la causa lealista, ma si rese conto presto che i briganti delle bande locali non erano affidabili e ligi alla loro missione come i requetés spagnoli. Venne fucilato a Tagliacozzo l’8 dicembre 1861, episodio citato anche nel libro che stiamo analizzando:
"Verso la metà di dicembre, nell’“ambiente dei Briganti”, si diffuse la voce che il generale Borges, sulla cui impresa si erano costruite le maggiori speranze, era stato catturato e fucilato insieme con tutti i compagni d’armi. L’emozione che questa voce […] suscitò, fu straordinaria. Mentre gli stranieri davano sfogo, nella maniera più intensa, al loro dolore per quanto accaduto ed alla loro amarezza per la mancanza di scrupoli con cui il comitato autoctono aveva mandato verso sicura rovina un condottiero così valoroso e così ricco di talento insieme a tanti eroici ufficiali, gli xenofobi si fregavano le mani in segreto. Più che il bene della causa comune, per quella così fanatica ed altrettanto così infame congrega, valeva la propria puerile ambizione".
Zimmermann si mostrò intraprendente, desiderava attaccare gli avversari senza remore e arrivò a proporre di organizzare una “spedizione tedesca” dalla Dalmazia in aiuto agli insorgenti meridionali, ma questo suo progetto non fu mai messo in pratica, i briganti e il governo borbonico in esilio preferivano continuare a perdere tempo e ad attendere una svolta in cui probabilmente non credevano nemmeno loro.
Il memorialista accusa frequentemente le armate italiane di aver agito brutalmente e tratteggia così la fine del carlista Borjes:
"Quando i ventuno spagnoli, in orgoglioso disprezzo della morte, contegnosi e calmi, raggiunsero il luogo dell’esecuzione, la popolazione della città, di sentimenti borbonici, fu colpita da una tale agitazione che sarebbe bastata una sola, decisiva parola a scatenare una rivoluzione. Quella parola decisiva, però, non fu proferita. Tutti quegli eroici soldati morirono con ferreo coraggio, senza un grido di lamento, senza il minimo segno di debolezza. La loro morte non torna ad onore dei loro nemici. Quegli ufficiali carlisti, collaudati in tante sanguinose battaglie, in verità non si sarebbero arresi, se non fosse stato loro assicurato un “dignitoso trattamento da prigionieri di guerra”. Essi avrebbero sicuramente preferito morire impugnando le armi, se avessero potuto presagire la fellonia del nemico. Per capirlo, accanto ad un normale cervello, occorre soltanto un briciolo di senso dell’onore".
Nel corso della sua esistenza, Zimmermann ha dipinto, ha scritto e ha combattuto una battaglia disperata; desiderava una vita da artista e riuscì ad averla: ricca di avventure e segnata dal fascino particolare dell’incoerenza. Memorie di un ex Capo-Brigante è un libro che, se utilizzato nel modo corretto, può risultare utile agli studiosi, nonché emozionante per il lettore comune, che qui troverà una storia di tradimenti e di meschinità, ma anche di forza e di ardore.
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