Mongolia. La storia le storie
- Autore: Roberto Ive
“Dal grande rifiuto per la religione si è passati ora al suo grande amore.” (Pag. 56)
C’è un paese molto distante da noi, oltre le sedici ore di aereo dall’Italia.
È lontano, completamente solitario, con i confini stretti fra due colossi come Russia e Cina. La Mongolia è famosa per gli antichi guerrieri, capaci dalle povere steppe di conquistare il mondo.
Scrivere della Mongolia attuale è difficile per lo scarso interesse verso una nazione affascinante. Ci prova con intelligenza Roberto Ive, ne La Mongolia. La storia le storie (Bonanno Editore, Acireale, 1996).
Se abbandoniamo il mito di Gengis Khan, cosa sappiamo della Mongolia?
Roberto Ive ce ne parla per capitoli, ognuno con un titolo e date storiche importanti, uscendo dai luoghi comuni e insegnandoci il valore delle differenze.
Luglio 1989, la presenza dell’URSS è dominante. In Mongolia c’è una forte presenza di soldati russi e l’alleanza è vitale per l’economia.
Ovviamente questo controllo comportava delle restrizioni e dei prezzi da pagare elevati:
“… era vietato esprimersi nella lingua nazionale, il mongolo, e ben pochi conoscevano la sua forma scritta.” (Pag. 11)
tutto era in cirillico e ancor oggi i mongoli parlano russo correttamente.
Un altro prezzo pagato è stato sull’altare dell’ateismo sovietico. Fra il 1936 al 1939 furono distrutti i templi buddisti:
“… la religione buddista costituiva un pericoloso ostacolo allo sviluppo delle classi lavoratrici e del potere popolare.” (Pag. 16)
Soprattutto era vietato:
“esplicare liberamente l’orgoglio della propria sovranità nazionale.” (Pag. 19)
L’arrivo di Michail Gorbačëv e la caduta del muro di Berlino comporteranno delle conseguenze, anche se meno altisonanti, pure in Mongolia.
Qui inizia il viaggio di Roberto Ive sulla nuova Mongolia.
Fra i vari capitoli il più bello ed emozionante è del luglio 1990, il primo momento in cui i mongoli hanno compreso, dopo tanti anni, la fine del controllo russo. A luglio, durante la festa nazionale del Naadam, nella piazza principale di Ulan Bator sfilano l’esercito e iniziano le gare, i giochi, gli sport sulla tradizione dei nomadi mongoli.
Rispetto alle edizioni precedenti qualcosa è cambiato, l’autore ce lo racconta comprendendo le emotività dei mongoli.
Una grande bandiera con il Soyombo (ideogramma ideato dal monaco e artista Zanabazar, il cui significato è: “may the Mongol nation exist by its own right”) appare nella piazza. Tutto intorno c’è
“Il colore blu, è il nostro colore nazionale … rappresenta il nostro cielo …” (Pag. 42)
Riappare perfino il grande eroe Gengis Khan, segregato per anni per occultare il desiderio patriottico dei mongoli. Ora invece è mostrato apertamente.
Solitamente dal:
“Più alto in grado sarà il rappresentante inviato da Mosca, più stretto sarà il nostro rapporto con loro”. (Pag. 44)
Ebbene per il Naadam del 1990 accanto al Presidente mongolo non c’era nessun inviato da Mosca. Da questo momento i mongoli hanno capito: molto sarebbe cambiato.
In altri capitoli comprendiamo le trasformazioni e i mutamenti ma ripristinando gli elementi tradizionali.
Nelle elezioni democratiche del 1992, il partito ricostruito sul vecchio partito comunista si aggiudicherà ben 70 su 76 seggi. Pertanto politicamente il passo fu corto ma in avanti.
Ma sarà la tradizione popolare a riprendere il controllo della propria memoria e della propria storia.
Si parte dal ritorno alla grande di Gengis Khan:
“Il mito unificatore di Gengis Khan è diventato il simbolo esteriore di questa unità nazionale.” (Pag. 25)
L’altro sarà un ritorno di una forte presenza della religione buddista:
“Perché essa ha funzione unificatrice e perché in essa si riconosce la cultura e la tradizione di tutto il paese.” (Pag. 26)
In seguito l’autore ci porta all’interno di alcuni luoghi fisici, sia a Ulan Bator, sia fuori. Il primo è il tempio buddista di Gadan. Dopo le distruzioni dei templi, i mongoli riapriranno il principale della capitale. È il luogo del ritorno della spiritualità, della preghiera, anche se i mongoli continuano a dividerla, ancora oggi, con lo sciamanesimo.
Lo sciamanesimo è più nascosto, meno appariscente ma i suoi segni sono visibili sulle strade come abbandonati casualmente.
Pure i giovani si suddividono apertamente fra le due grandi spiritualità del paese.
Altro luogo fisico raccontato dall’autore è il bellissimo Hotel Ulan Bator.
Se ora sulla grande piazza di Genkis Khan c’è l’ombra della vela del mastodontico hotel Blue Sky, fino a qualche anno prima c’era solo l’hotel Ulan Bator per gli occidentali. Di classica architettura sovietica, è stato il primo cinque stelle della capitale. L’autore ci racconta l’atmosfera della popolazione in fila per entrare nella discoteca dell’hotel, nella speranza di avere del contatto con gli occidentali.
Due figure si evidenziano: il portiere cerbero dell’albergo e le prostitute come effetto della liberazione.
Il clima dell’epoca esiste ancora nell’hotel. Tutto è squadrato nelle stanze, la grande scalinata di fronte è il segno di una nobiltà forse decaduta ma ancora viva. Poi ci sono alcuni particolari rilevanti nelle stanze, come la torcia elettrica presente vicina al letto, testimonianza della mancanza della luce improvvisa e per lunghi periodi dei tempi passati.
Tra gli altri argomenti portati alla luce da Roberto Ive alcuni sono letterari e poetici come il tema della solitudine:
“La Mongolia, quanto a insegnamenti sulla solitudine, era certamente una maestra senza confronti.” (Pag. 36)
Una solitudine figlia dei grandi spazi aperti del paese, delle steppe forti, della violenza dell’inverno freddo e nevoso. Le grandi famiglie vivevano (o vivono) nelle loro ger con il loro bestiame, lontani chilometri da altri segni di vita, dovendo affrontare la neve e le condizioni climatiche pessime. Privazione e isolamento non possono che causare la solitudine dei mongoli. È un sentimento conosciuto grazie ai romanzi dello scrittore mongolo Galsan Tschinag.
Grande conoscitore del paese, Roberto Ive individua la motivazione di un distacco fisico e caratteriale nello spazio:
“Non potendo fuggire allo spazio disabilitato, il vuoto può essere usato al pari di un compagno, come un amico silenzioso che induce a un dialogo interiore più approfondito, alla riflessione, a una maggior cura verso i segni esterni, a tanta attenzione verso gli altri.” (Pag. 82)
Politico e attuale è il tema del futuro della Mongolia.
Vaso di ceramica fra i due elefanti russo e cinese, riuscirà a mantenere un’equidistanza e buone relazioni con entrambi?
Oppure siamo alla presenza di un’alternanza fra russi e cinesi:
“Ormai la vecchia Unione Sovietica ha fatto il suo tempo, non esiste neppure più. Il grande rischio è quello cinese.” (Pag. 78)
L’ultimo spunto è un atto d’amore evidente fra l’autore e la Mongolia. Nel capitolo dedicato alla visita della città di Chojr nel marzo 1993, con gli occhi di un innamorato, narra come una lirica e il paese attraverso un normale impiegato del treno:
“È lo sportello del bigliettaio. Talmente piccolo, alto, scomodo, che l’addetto, dall’altro lato del muro, sembra occhiare da un mondo lontano e irragiungibile. Un mondo prezioso perché è lui il custode delle vie di accesso e di fuga.” (Pag. 66)
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