Nel nome del pane
- Autore: Andrea Accorsi
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2024
Nasce dalle emozioni suscitate da eventi autentici, ma non li racconta testualmente, il nuovo romanzo di Andrea Accorsi, Nel nome del pane, novità delle Edizioni Minerva di Argelato-Bologna (settembre 2024, collana Egida, 256 pagine). Resta pur sempre un prodotto di fantasia.
Se in copertina si legge: “ispirato a una storia vera”, un’avvertenza in coda precisa che le vicende sono romanzate dall’immaginazione dello scrittore bolognese e i personaggi inventati, pur prendendo liberamente le mosse da alcuni realmente esistiti. La narrazione non va presa perciò come il racconto di una vita vera o di fatti reali, piuttosto come frutto di finzione letteraria. Emotivamente coinvolgente, aggiungiamo.
Nato nel 1967, radicato a Crevalcore, con un pezzo di vita sulla Gran Canaria (Puerto Rico), già ottimo ultramaratoneta, poi pedalatore causa infortunio, Accorsi scrive col cuore, di bici, di viaggi su due ruote, di cicloturismo (tanta Spagna non ha segreti per lui).
Nella bibliografia personale non c’è però soltanto il saggio Diario di un apprendista ciclosognatore (2019), anche una raccolta di racconti e tre romanzi. Ha cominciato parlando del se stesso dopo l’incidente stradale che ha stoppato la carriera da ultrarunner: in “12 ore” (2009), una maratona di mezza giornata è l’occasione per un bilancio esistenziale. Corsa, fortissimamente corsa anche in Fino all’ultimo fiato (2010), per arrivare a Portami nel cuore (Minerva, 2022), viaggio-fuga in Algarve di due bolognesi in tandem e riflessione sulla vita e sulla morte. Gli è valso il premio nazionale Caffè delle Arti, settima edizione, per la sezione narrativa inedita.
Andrea ha confessato anni fa di sentire il bisogno di raccontare, per “rimettere in pace” il corso della propria esistenza.
Ma veniamo al nuovo titolo. Nella breve prefazione-invito alla lettura, il critico letterario Claudio Ardigò parla di un libro valido, riuscito, da leggere come vanno vissute certe vite, “fino in fondo, avidamente”. Suggerisce di bypassare eventuali perplessità iniziali: in avvio si potrà
“forse trovare una certa difficoltà, poi il libro ti incastra, ti rapisce, ti trascina selvaggiamente e ti frantuma con parole così pulsanti da bucarti qualcosa dentro”.
Diventa facile immedesimarsi nel protagonista, che l’autore valorizza passo dopo passo, bravo a diventare “un tutt’uno” con il personaggio, in una fusione d’anime “miracolosa seppur dolorosa”.
A Syed è sempre piaciuto il profumo del pane appena sfornato. È tuttora un aroma che lo riporta a casa, in Pakistan, da mamma Zayn. Nel mondo in pezzi in cui è costretto a “viaggiare”, il pane è l’unica consolazione alla quale aggrapparsi.
Quando alle tre del mattino il diciottenne è stato svegliato da colpi secchi alla porta, nel guardare abbasso ha riconosciuto l’uniforme dell’Intelligence pakistana. L’ISI è uno Stato nello Stato, può tutto.
Senza esitare un istante, ha radunato alla rinfusa un po’ di roba nello zaino e si è gettato dalla finestra sul lato opposto. Sei metri, un urto tremendo, poi una vampata di calore lungo la gamba, dalla caviglia destra, che ha ceduto sotto il peso del corpo. È rotta? Spera di no, ma intanto può solo zoppicare.
Nel capitolo immediatamente successivo, da Islamabad il racconto in prima persona si sposta al presente e si comincia a scoprire l’oggi di Syed.
Lavora da quattro mesi in un forno. L’Agenzia gli ha trovato un posto, in prova. Sono occupati in dieci, con lui sette italiani, un polacco e un tunisino. Il capo è Piero, panificatore da trent’anni, aveva il padre farmacista ma non la voglia di studiare e si era trovato a fare il pane, le pizze, il salato. L’azienda è del suocero, un pezzo d’uomo ottantacinquenne che strilla ancora. Chiara, la moglie di Piero, fa i conti e segue gli ordini in ufficio.
È un forno industriale, confeziona per lo più pane per le aziende, ma vende anche al pubblico. Dietro il bancone lavora Alice, che ha più o meno gli anni del ragazzo pakistano, attratto da lei, dagli occhi azzurri, dal seno.
Mario, il più anziano dei fornai, gli ha domandato se anche in Pakistan si faccia il pane. Certo che si fa, in casa, nel tandoor e somiglia alla piadina romagnola. Ce ne sono di due tipi: il naan e il chapatti.
La notte della fuga avvertiva dentro di sé l’obbligo di superare quel momento senza danni e senza morire. Doveva soprattutto salvare la vita di sua madre, Zayn non avrebbe mai sopportato di sopravvivere senza di lui.
Lo aveva aiutato Javed, un indipendente, un antagonista, soprattutto un “invisibile”, buon per lui. Gli aveva chiesto quali fossero le sue intenzioni.
“Voglio andare in Italia, è un sogno che faccio fin da bambino”.
In segno di consenso, Javed aveva sollevato una mano e lui la sua. Un palmo battuto contro l’altro, si erano dati il cinque, come fanno gli americani.
La realtà di un Pakistan arretrato, dominato dall’arbitrarietà dei clan e sotto tanti aspetti brutale, emerge pagina dopo pagina, accanto alla durezza del viaggio, seicentoquindici giorni e notti sulla rotta dei Balcani. A piedi.
Cosa siamo capaci di offrire a chi viaggia come Syed, oltre ad una Bologna più o meno accogliente e ad una “non” integrazione, a volte rancorosa negli sguardi di passanti sconosciuti?
Ancora una volta, Andrea Accorsi parla in un romanzo di “andare”. Anche di compiere un bilancio della vita e di quello che si potrebbe fare per migliorare la nostra e quella degli altri, con uno sforzo di consapevolezza, sorretti dall’etica, dalla buona volontà e da una piena coscienza. Cosa dovremo aspettarci: si aprirà una luce in fondo al tunnel per Syed?
Nel nome del pane
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