Novelle saracene
- Autore: Giuseppe Bonaviri
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mondadori
Sono ventisei racconti le Novelle Saracene di Giuseppe Bonaviri (Milano, Rizzoli, 1980) che, a suo dire in Nota, hanno la loro genesi nella tradizione orale siciliana:
Con questi racconti mi pare ritrovare la mia gente con mia madre un preciso punto d’incontro nel nostro profondo sentire […]. La gran parte di queste novelline fanno parte di un patrimonio etnografico euro-asiatico, per non dire universale, ma indubbiamente hanno subito varianti notevoli, cadenze recitativi tipicamente siciliani. […]: come se il nostro villano si fosse voluto creare una Divinità Trinitaria da eterodossi personaggi […]. Insomma, si rovescia la usuale posizione cristiana – e del pensiero cristologico – per rifarsi ad un dramma pagano, o forse pre-cristiano, quando s’ebbero a scontrare due culture, due egemonie, due opposte mitografie. Ogni cosa subisce un rovesciamento, persino il tempo e lo spazio e il modo di intendere il Divino.
Sono suddivisi in tre sezioni le narrazioni, a un tempo d’autore e popolari: Gesù e Giufà; Novelline profane; Fiabe, accomunate da un’unica radice: un dialetto-lingua, un lessico sensoriale, sensuale e animistico che gli proviene dalle vibrazioni d’ogni elemento del cosmo; il suo è un “gioco sintattico tutto emotivizzato”: essenzialmente melodioso, impreziosito di cantilene propiziatorie tramandate oralmente e le parole, definite “corporali”, cercano di:
Parlare all’uomo, alla capra, al passero, al pesce, alla foglia tremante, al nostro sasso di lava.
Nell’opera dal fondo fantastico di un’amabile paesanità, animata dalla fantasia del cuore e dalla presenza della madre dello scrittore con la sua straordinaria capacità di narrare, che gli ha fatto meritare il Premio <
Partorisce in una grotta e dice come chiamarlo: <Fuori> >.
Abbandonato nella grotta per vergogna, il nascituro viene allevato da una pecora, avendolo scambiato per il suo agnello che s’era smarrito. Grandicello, dalla faccia negra come un saraceno, raggiunge il paese con la pecora che lo segue. Lì incontra il calzolaio Michele Gabriele con cui conversa e questi lo riconosce come il figlio di sua sorella Maria, dicendogli che lei l’ha sempre cercato.
L’incontro di Gesù, che aveva otto anni, con la madre avviene nel quartiere di Santa Maria. La partecipazione è corale e il canto della “gente femmina” ha i toni suggestivi tipici della laude jacoponiana e della religiosità arcaico-pastorale.
Nella bottega dello zio, che fa anche incantesimi, va a lavorare Gesù e adesso l’io narrante introduce il personaggio di Giufà, suo cugino e figlio di Maddalena: “Giufà – che era nato, come si dice, lo stesso giorno di Gesù – tanta idea al lavoro non aveva. Difatti, se vedeva la polvere battere in mulinelli le ortiche che piangevano, diceva:
Ah, tristo vento, fai piangere le mie amiche ortiche?
Andava a proteggerle col suo corpo, le dipingeva in celeste, dalle stille di pianto delle ortiche faceva cera per mastro Michele.
Gesù, in confronto a Giufà è piccolo, nero in faccia e sempre in movimento, mentre Giufà, di scarso cervello, è il suo contrapposto: la spiritualità e la materialità forzuta, potrebbe dirsi: due facce della stessa medaglia o della stessa divinità.
nato Giufà “con difetto di cervello, non capiva bene, pensava solo a mangiare pane spalmato con olio e pepe”.
E Giufà è un saraceno quasi pagano per l’adorazione della natura. Deliziosa e finemente tratteggiata la pagina in cui Gesù impara a volare con le ali che lo zio gli aveva appiccicato. Re Federico, appresa la notizia, per invidia e per intolleranza religiosa (il conflitto tra cristiani e saraceni), ordina che venga ammazzato (perfino il Papa è contro Gesù), ma Gesù riesce a scappare e a nascondersi in una pigna. Commenta lo scrittore:
Quella pigna per lui fu lucerna, letto, speco. La cosa è vera: difatti se aprite un frutto pinoso, dentro vi trovate frutticini che sono come mani piccole congiunte, in clemenza e in bianchezza se ne stanno. Inseparabili amici Gesù e Giufà che non lo lascia mai solo quando il Bambinello s’ammala di malaria E sono le mani di Gesù.
Ecco l’imprevedibile che evoca il pirandelliano umorismo del contrario: se Gesù non fa miracoli.
Struggente il brano in cui la sua potenza è assai inferiore a quella di Giufà:
[Gesù] Diceva per esempio al passero: “Diventa merlo”. Ma quello in lode di Dio Macone restava passero. Diceva ad una pietra “fatti pane”, la pietra in piangente cuore s’alzava ma non si trasformava in pane.
I miracoli è invece Giufà a operarli, sentendosi in amoroso fuoco col mondo: trasforma le mosche in farfalle; inventa strumenti per attirare animali e anche per divertire l’ammalato. Il vicinato gli chiede miracoli e la Maddalena si dispera.
Un Giufà insolito dunque che dalla tradizione, risalente alle storie di Giuseppe Pitrè, conserva le sciocchezze che combina come quando, mandato dalla madre a far legna, riempie il sacco di spine e di rovi o quando per nutrire il fratellino lo soffoca.
Anche la difesa dei deboli contro i soprusi dell’autorità abbraccia, avendo in sé elementi anche etico-morale. Inseguito dai gendarmi, zio Michele lo fa nascondere nella cisterna. Nessuno lo trova più. Scompare e la Maddalena dal cuore di madre, piangendo, dice alla villana che le chiede notizia:
Sapete come si dice? Chi ha figli, ha caviglie; chi ha oro, ha oro e argento; chi ha argento e un figlio Giufà, resta Baccalà.
Il racconto ha una tematica chiara: mette in discussione la narrazione evangelica, la sovverte destrutturando lo spirito cristiano operato dalla cultura popolare e si fonda sulla convivenza di più tradizioni, tra cui il recupero di detti e canti antichi di Minèo: il paese siciliano di nascita dello scrittore.
La parodia e l’originalità dello stile della narrativa burlesca sono le qualità che spiccano nelle Novelle saracene di Giuseppe Bonaviri: Gesù, il saraceno, si sdoppia nel mitico Giufà del folclore arabo-islamico: un personaggio che ha energie soprannaturali, la presenza del divino nelle bricconate irragionevoli; nel racconto successivo La resurrezione di Giufà, con la sua potenza (”era il solito bestione grosso, nero, intrepido, non vinto”), è capo dei villani che lottano contro il tiranno Federico di Svevia e si fa apostolo di Gesù per apprendere nuovamente a fare miracoli prima di diventare re di Sicilia in sostituzione dello Svevo, espressione di tirannia nella mentalità popolare. Così la madre Maddalena, con le comari, e la stessa Maria madre di Gesù e la gente:
O figlio del mio ventre, / meraviglia di nuova gente, / di Sicilia e Castiglia Re, / uccidi Federico, fallo defunto subito!.
Diventa re mentre Gesù andava in giro per il mondo con i suoi compagni apostoli. E prima di diventare re anch’egli s’era fatto apostolo per imparare qualcosa di magico. E di nuovo scompare, non volendo più fare il re cui tutti chiedevano la moltiplicazione dei beni. Scompare e riappare Giufà, e di nuovo scompare come nel racconto La morte di Gesù, in cui i punti di riferimento sono lui, Gesù e Orlando: la Trinità crocifissa su tre alberi di ulivo.
Orfana, la gente grida:
O nostra Trinità, Gesù Giufà Orlando, ve ne andate nella fossa oscura. Il mondo non ci sarà più.
Siamo nella metafora della crudezza del reale che segna la fine delle favole: cioè, della fantasia, dell’inventività, della memoria dei padri rielaborata da Bonaviri con una dolcezza intrisa di soffusa malinconia.
In conclusione, motivo-cardine della raccolta è quello del ritorno alle radici materne, del “nostos” alla propria terra; stupisce l’abilità con la quale Bonaviri fa convergere una pluralità di voci e di popoli a Mineo: metafora del mondo, presepio-universo di ogni possibile evento.
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