L’Orto Fascista
- Autore: Ernesto Masina
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2013
Breno, Valcamonica, 1943. L’occupazione nazista semina rabbia e terrore, la guerra ha stremato la popolazione, la superbia fascista regala cerimonie e promesse a cui le persone non credono più. Uno scenario ovviamente drammatico. Eppure Ernesto Masina, con una narrazione costruita con grande maestria e delicata ironia, vi inserisce una commedia umana toccante e a tratti perfino divertente. Ciò che stupisce è che una simile scelta non suona mai dissacrante verso il doveroso rispetto per la tragedia; al contrario, il dramma viene descritto, pur nello stile leggero, con commozione sana e spontanea, priva di ogni retorica.
I capitoli iniziali de L’Orto fascista (Macchione Editore, 2013) presentano un personaggio per volta, pennellandone le peculiari caratteristiche: debolezze umane dolcemente canzonate da uno stile leggero, che fa percepire un grande amore da parte dell’autore per le persone che inventa e descrive.
La corruzione dei politici, l’ipocrisia del clero, la dubbia moralità di certi costumi femminili, perfino la cattiveria dei carnefici, pur mostrandosi alla base del persistere della dittatura e del susseguirsi di fatti drammatici, appaiono a chi legge peccati veniali. Ogni personaggio ha infatti un’umanità vibrante, descritta abilmente e senza enfasi nella sua semplicità quotidiana, al punto che il lettore riesce a identificarsi in tutti loro.
Breno diventa perciò il teatrino di una dolce commedia umana, in cui episodi di vita quotidiana si intrecciano con fatti straordinari sublimi (una conversione dalla perversione all’eroismo) o terribili (la rappresaglia nazista), senza soluzione di continuità e senza mai turbare la coerenza narrativa rilassante che caratterizza tutto il romanzo. L’equilibrio costante e perfetto tra fatti drammatici e l’intervento di personaggi quasi caricaturali è la caratteristica più preziosa dell’opera.
L’Orto fascista è un’opera vincente, che fotografa l’umanità nella sua totale imperfezione e insegna ad amarla così com’è. Il finale è affidato ai bambini, che nella loro beata ingenuità si fanno specchio e portavoce della mentalità degli adulti, sottolineandone inconsapevolmente tutte le pecche.
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All’inizio degli anni Quaranta, Breno è, come probabilmente ogni altro luogo in Italia, un paese fortemente diviso. Ci sono i ferventi fascisti, come la procace maestra Lucia, o il parroco Don Cappelletti, fedele spia della polizia di regime, che lo ricambia agevolando certi suoi peccati inconfessabili. E ci sono gli antifascisti, come il Russì e il farmacista Temperini, uomini non di primio pelo ma gioiosamente dediti alle donne. Costoro tacciono per evitare rappresaglie, ma hanno ben capito che il regime non è il buon governo che vorrebbe sembrare, solo perché ha donato al paese un sedicente "orto", invero un appezzamento di terreno da far coltivare ai ragazzi della scuola; e hanno ugualmente capito che i tedeschi di stanza a Breno non sono amici, e che, all’occorrenza, sono pronti a voltare la faccia al regime stesso. Anche gli stessi tedeschi, però, non sono tutti uguali: oltre ai criminali, sanguinari, che non aspettano altro che l’occasione per mettere le mani su di un partigiano, esistono anche persone che di per sé sarebbero anche pacifiche, ma si sono trovate, loro malgrado, invischiate in questa guerra non voluta. Ad esempio l’Hauptmann Franz, che non sogna altro che tornare dall’amata moglie e dai figli, e che, nel frattempo, per sopportare meglio l’attesa, sogna un’avventura con Benedetta, la cameriera ai piani dell’albergo dove risiede.
Il paese è, quindi, in quell’inizio di decennio, una vera e propria pentola di fagioli in ebollizione, il cui coperchio potrebbe saltar via da un momento all’altro. L’insofferenza regna sovrana: quella degli antifascisti contro il regime e i tedeschi, ma anche quella delle persone pacifiche contro la guerra. A ciò si aggiungono decine di disagi e insoddisfazioni personali, di uomini e donne che la vita ha portato su di un sentiero diverso da quello che avevano sperato: il prete che non ha mai avuto una vera vocazione, la maestra incatenata a un marito disinteressato a lei, il comandante che non avrebbe mai voluto questa guerra. Insomma, Breno, in questi primi anni Quaranta, è un vulcano in ebollizione, apparentemente pacifico ma in realtà pronto a esplodere da un momento all’altro.
E l’esplosione, nel vero senso della parola, arriva per mano del Russì e dell’in fondo pavido Temperini. Nelle intenzioni si dovrebbe trattare solo di un danno a cose: il piano è, infatti, quello di far saltare in aria l’auto di servizio dei tedeschi. Ma il diavolo, il destino o chi per lui, ci mette la coda. Quello che doveva essere un semplice danno finisce in tragedia, e dà ovviamente il via a una dura rappresaglia; ed è qui che l’invasore mostra il suo vero volto, facendo vacillare anche l’ardente fede dei più irriducibili affezionati al regime. Ma, proprio quando sembra che un miracolo, nel vero senso del termine, abbia portato le acque a calmarsi, ecco che un altro gesto, stavolta perpetrato con l’incoscienza di un gioco, produce un’altra conseguenza indiretta ma devastante.
A metà strada fra l’affresco naif e la foto in bianco e nero, questo romanzo dolceamaro è uno spaccato di vita di paese immerso nella storia. La scrittura di Masina è stata paragonata a quella di Vitali, e con essa presenta indubbiamente molte analogie, pur essendo più cupa, meno "macchiettistica" e, forse, più reale. I primi capitoli tendono ad annoiare, essendo eccessivamente incentrati sul sesso, ma via via la narrazione si fa più appassionante, e alla fine ci si commuove.