Parto
- Autore: Inês Hoffmann
- Categoria: Poesia
Percorso intimistico quello della poetessa brasiliana Inês Hoffmann, le cui liriche possono adesso essere conosciute e apprezzate dal lettore italiano con l’opera intitolata “Parto” (Samperi editore, Catania, 2007). La traduzione, col testo originale a fronte, è curata dal noto saggista, critico e poeta siciliano di Trapani Marco Scalabrino che riesce a far gustare il senso e il ritmo di versi fluidi e accattivanti, modulati sul tormento dell’anima che ricerca se stessa. Di monologhi interiori si può parlare che hanno l’impronta d’una confessione esibita a cuore aperto senza nulla concedere alle oscurità che rallentano la liberazione da ogni fardello.
L’apertura della raccolta è affidata a una breve poesia che inneggia alla “speranza”: dichiarazione d’intento che già rivela la meta d’un viaggio irto di pericoli con cui ingaggiare una lotta corpo a corpo. L’obiettivo da perseguire è la conquista della pace interiore, alimentata dalla fiducia nell’attesa. La porta resta così aperta allo spiraglio di luce. Trovarla dipende dal superamento dei tanti ostacoli dati dalla “natura ignobile”. Viene in mente l’immagine platonica dell’auriga che guida una coppia di cavalli alati: l’uno è eccellente, l’altro è pessimo. Sicché, la sua opera risulta penosa, dato che l’anima è tirata in basso dal quadrupede balzano.
Le piste di ricerca rinvenibili nelle liriche di Inês Hoffmann sono variegate: dall’immersione totale negli elementi della natura, perché se ne possano sentirne i benigni effetti terapeutici, alla scelta della solitudine come possibilità di rifugio nel sogno; e solitudine anche come percezione dell’assenza d’un amore non rivelato, motivo questo ricorrente in più poesie. I disagi, come la ruota del mulino che non cessa di girare, sono, dunque, gravosamente vissuti dalla poetessa. Da qui la percezione del “vuoto” che è angoscia d’esistere e da cui ci si può liberare attraverso un laborioso processo di metamorfosi.
Brevi i versi che evocano dolenti stati d’animo; hanno il carattere dello stigma che impietosamente incide sulla carne, ed essi affluiscono come un fiume in piena anche in lunghi componimenti attraversati da domande, da invocazioni, da affermazioni perentorie finalizzate all’individuazione del sé nel labirinto della vita:
“E’ il mare
che accarezza la nostra pelle
e subito dopo arretra
privandoci di quella piacevole sensazione
e lasciandoci soltanto il sale?”
Il sentimento del notturno è avvertito come emersione di follie che fanno da supplizio all’essere cosciente, mentre struggente è la visionarietà in “Danza maledetta”: lirica di forte impatto emotivo in cui l’io poetico, invaso dagli spettri dell’inconscio, quasi voglia indicare nel ritmo frenetico della corporeità la liberazione da costoro che attaccano e dilaniano. La poetica del vuoto e del nulla, per nulla consolante, è sferzante, affligge e artiglia: l’immagine è quella d’una fiera dominante che fa impazzire fino a provocare una sorta d’innamoramento tra l’anima e le sue ombre. Rispetto alla meta vagheggiata, sembra prendere il sopravvento l’inquietante presenza del “negativo” come alienazione dal proprio essere. Leggendo, però, il fresco e arioso componimento “Risorgere” la prospettiva nichilistica si ribalta nel suo contrario: ecco, allora, la bella immagine del pino, albero verde e rigoglioso, assunto a metafora d’una rinascita semplice e pura di cuore, protesa “all’azzurro infinito del cielo”: dirozzate le asprezze, è possibile ora riprendere a vivere, ricominciare ad amare.
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