Paura del Brujo. Diario di un cacciatore di fate
- Autore: Stefano Fantelli
- Genere: Raccolte di racconti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2015
Si occupa di fate, sirene, non-morti, angeli (caduti), vampiri, ed altro fantastico eventuale, ma decidesse di dedicarsi all’esegesi del Calendario di Frate Indovino sarebbe uguale: la scrittura di Stefano Fantelli si confronta con il brillio delle super nove, suonando degli eco della lirica metropolitana. Ne avevo avuto il sentore leggendo il romanzo d’esordio “Strane ferite”, ne ho trovato conferma tra le pagine (illustrate all’incrocio di realismo e surrealtà da Dario Viotti) di “Paura del Brujo. Diario di un cacciatore di fate” (CUT UP Edizioni, 2015).
Quattordici racconti onirici-sghembi-grotteschi e un filo rosso dato da teoria e prassi dell’essere Brujo, lo Stregone. Che poi, a ben guardare, sarebbe Fantelli medesimo. Transustanziato in materia narrativa, corpo e carne ipnagogica da romanzo. Un Dylan Dog che crede ai suoi incubi, un pre-cog che se la vede con la Morte (dell’anima, malgrado le gambe mica male e il fatto che succhi chupa-chups). Un assiduo frequentatore della twilight zone, un compulsivo della scrittura, e fortuna che ci sa fare perché altrimenti sai che strazio. Del suo “Paura del Brujo” mi sono piaciute tante cose, e tutte di una certa importanza:
- il colore del tratto narrativo;
- il taglio per libere associazioni lisergiche;
- i mostri in altrettanto libere uscite che le popolano (inarrivabile la zanzarona di Very Gothic. Molto cesenatico old style);
- l’ironia tra il detto e non detto delle righe;
- i titoli inconsueti dei racconti-capitoli (vedi sopra);
- i rimandi pop, para-letterari, letterari (da un Thomas M. Disch per cultori, a James Joyce, a Celine, a Dostoevskij) e musicali (finalmente un horror-writer italiano che cita a man bassa dai cantautori);
- i cambi di registro che funzionano come dovrebbero funzionare in ogni storia “nera” che si rispetti;
- la poetica macabra che aleggia sulle storie;
- il disincanto, la passione, l’amore stilnovista e quello (si intuisce) per la birra, le ore piccole e i déraciné;
- il modo con cui Angelo, Mela e Brujo dopo quasi duecento pagine di (dis)avventure tra delirio e razionale risultino quasi familiari;
- la suspense e il senso di disagio che ci sono e sono interiori, non si conclamano (stanno nell’ attesa).
Insomma: se l’horror esistenziale (con impalpabili venature politiche) dovesse chiamarsi con un (altro) nome è col nome e cognome di Stefano Fantelli che si chiamerebbe. Fa piacere, una tantum, segnalare un italiano senza tema di smentita.
Inciso: a parte la sacrosanta citazione di Morgana, Morgana, la parafrasi degli
“operai sono come le aragoste, la parte migliore sono le braccia” (p. 24)
era sottile, e poteva permetterla solo un vecchioniano doc. Detto da uno venuto su a pane e canzoni di Roberto Vecchioni: complimenti anche per questo.
Inciso 2 (per i più curiosi e/o i filologi): la citazione di Vecchioni è desunta da Alighieri (1975) e recita testualmente: “Le aragoste sono come i poveri,
le parti migliori sono le braccia”.
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