Peltro e argento
- Autore: Gilberto Sacerdoti
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2023
L’intensa postfazione di Bianca Tarozzi a Gilberto Sacerdoti (come lei anglista di fama, traduttore di Shakespeare, Thomas Hardy e Seamus Heaney) e al suo libro Peltro e argento (Molesini, 2023), antologia poetica pubblicata quest’anno dall’editore veneziano Molesini, fornisce al lettore alcune chiavi di lettura importanti per penetrare i vari e stratificati caratteri della raccolta. Un’attenzione meditata alla natura (acqua e cielo, in primis), ai fenomeni meteorologici (pioggia), ai colori in tutte le loro sfumature, segna la “complessità espressiva e di pensiero” di questo autore dalla “vocazione metafisica” e dall’“anima musicale”.
Gilberto Sacerdoti (Padova 1952), già docente di letteratura inglese a Roma Tre, ha pubblicato tra il 1978 e il 2001 tre importanti libri di versi, da cui sono tratte alcune poesie inserite nel volume di cui ci occupiamo, insieme ad altre composizioni inedite. La poesia che apre il libro (tratta da Fabbrica minima e minore) è assolutamente esemplificativa della tecnica compositrice del poeta, non solo per l’accuratezza descrittiva, ma proprio per l’accorta sensibilità al suono. Musicalità raggiunta metricamente sia con l’alternarsi armonioso di endecasillabi e decasillabi, sia con le insistite rime in -are (mare, pescare, respirare, tornare), sia attraverso la ripetizione avvicinata dello stesso verso (“mezzogiorno tiepido di marzo”) e con il reiterarsi di sostantivi (“acqua” quattro volte, “mare” cinque volte). L’immagine della laguna veneta colta nella sua placidità primaverile viene ribadita poi dalla scelta meditata degli aggettivi (lenta, chiusa, tiepido, calmo, liquido, fermo), con l’intenzione di suggerire al lettore il respiro rasserenante di una tarda mattinata veneziana, sebbene in contrasto con l’affermazione malinconica degli ultimi due versi:
“ed io rimango fermo nei miei occhi / e sono senza mare a cui tornare”.
Mi sono soffermata sul commento di questa poesia di apertura perché mi sembra caratterizzante dell’atmosfera di molte altre composizioni contenute nella prima sezione. Come giustamente sottolinea Bianca Tarozzi nel suo intervento, l’io del poeta più che definirsi nell’esplorazione introspettiva è un io che osserva e ascolta gli elementi ambientali, e nel rendere con gentilezza visioni e suoni rivela dichiaratamente l’eredità di due “numi tutelari”: Saba e Penna. Troviamo molta luce e molta Venezia in questa prima parte del libro, colori luminosi (azzurro, arancione, verde, bianco, oro) e fiori, gabbiani, cani addormentati, lucertole, insetti. Si mostra “dolce e docile la vita”, da celebrare con un’eccedenza di cantabilità volta a esprimere gratitudine per l’esistente:
“Sono come fumo bianco le parole / che m’escono asciugandomi qui al sole”.
I “momenti estatici” di cui scrive Tarozzi si susseguono nella contemplazione silenziosa del paesaggio, favoriti dal tepore delle giornate, dalla consolante bellezza del panorama.
Ma già nelle ultime composizioni la città amata mostra il suo aspetto negativo, addirittura nauseante: improvvisamente bizantina, corrotta e corruttrice, invasa da “popoli bastardi”, da “giovani lascivi ed indolenti”, bagnata da acqua resa rancida da “alghe voraci”.
Sacerdoti cambia decisamente registro nei versi assunti da Il fuoco, la paglia (1988), che risultano severi e risentiti, quando l’esaurirsi dell’idillio incoraggia uno sguardo più critico sulla società, sulla storia e sulla natura. Si affacciano figure umane, non solo comparse sullo sfondo, ma veri e propri interlocutori ideali del poeta: Sant’Antonio, Amundsen, i pittori Claesz, Bellini e Guercino. Cancellata la tiepida brezza primaverile delle prime poesie, regna ora un luglio torrido e fradicio di sudore. Ai nuovi contenuti risponde uno stile franto e talvolta colloquiale, e accanto agli endecasillabi appaiono novenari e settenari, le rime si attenuano, la musicalità è meno distesa.
In tal modo ci si avvicina alla produzione del nuovo millennio, con le poesie di Vendo Vento (2001) e gli inediti, in un acuirsi di consapevolezza interpretativa che scava sotto la superficie per arrivare alle falde del vero, della realtà. Farfalle, api, mosconi sprofondano “nel cuore marcio del crisantemo”, il miele da biondo si tinge di nero, rondoni e gabbiani stridono, spuntano “fioracci” tra i detriti, la notte è infetta e la penna si trasforma in un bisturi a cui è demandato il compito di sezionare “l’ameba irrancidita” che divora corpo e mente. Non più marzo, e nemmeno luglio: sono adesso i mesi autunnali quelli più indagati, pioggia vento e nuvole sostituiscono il sole gentile delle poesie giovanili.
Una negatività prima sconosciuta viene ora accettata perché rivelatrice del male da non tacere. Gilberto Sacerdoti prega quindi un san Giorgio vendicatore:
“parti lancia in resta, / spurga, prosciuga, sana, cauterizza, / spalanca i vetri, lascia entrare il vento”.
Nella maturità si affrontano dilemmi esistenziali, si cercano risposte negli altri poeti (Whitman, Hopkins), si interrogano le divinità rimaste a lungo sorde e mute: “tocca vivere, morire e non capire?”. E nei versi inediti si affaccia per la prima volta l’ironia, l’unghiata sarcastica, evidente anche nei disinvolti inserti linguistici (glu, glu e glu; c!; ha-ha-ha-ha). Con gli anni, “Gela, ispessisce il sangue”, e “l’argento si spegne nel peltro”, razionalmente, laicamente.
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