Piédeghe fonde. Sulle tracce dei giorni nostri
- Autore: Annamaria Muiesan Gaspàri
- Categoria: Poesia
Secondo la leggenda, Pirano d’Istria (come Venezia) fu fondata da un gruppo di profughi in fuga dalla Pianura Veneta all’arrivo delle orde di Attila. Nel 1283 il Comune di Pirano, che nel 1177 aveva combattuto il Barbarossa, si diede a Venezia e rimase parte dei suoi possedimenti sino al tramonto della Repubblica, nel 1797; nel 1354 e nel 1379, la città resistette a due assedi genovesi e nel 1692 diede i natali al compositore Giuseppe Tartini, scomparso a Padova nel 1770. Pirano ricevette dalla Dominante la sua caratteristica impronta architettonica, di chiaro stile veneziano.
Abitata prevalentemente da italiani, passata all’Austria, Pirano si dimostrò ostile al governo asburgico; le tensioni crebbero inarrestabili e, nell’ottobre del 1894, quando il tribunale cittadino espose dei cartelli bilingue, i nazionalisti italiani diedero luogo a una contestazione che spinse la popolazione a protestare contro il potere austriaco e che fu poi sedata con la violenza il 22 dello stesso mese.
Evacuata durante la Grande Guerra, con il Trattato di Saint-Germain-en-Laye (10 settembre 1919) e il Trattato di Rapallo (12 novembre 1920), Pirano fu annessa all’Italia insieme all’intera Istria.
Con il tracollo dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, a Trieste (occupata dal generale Josip Broz Tito (1892-1980) il 1° maggio 1945) e in Istria si consumarono episodi di intolleranza nei confronti della comunità italiana ed eccidi. Il 10 febbraio 1947, con il Trattato di Parigi, l’Italia accettò le rettifiche del confine con la Francia nelle Alpi Occidentali, cedette alla Jugoslavia gran parte della Venezia Giulia, con l’Istria e Zara, e consegnò alla Grecia Rodi e il Dodecaneso. Fu riconosciuta la sovranità italiana su Trieste e la città fu temporaneamente posta sotto il controllo ONU. Nel 1947, Pirano fu inserita nella zona B del Territorio Libero di Trieste (TLT), che andava da Capodistria a Cittanova ed era sottoposta all’amministrazione militare jugoslava. Tali decisioni politiche generarono un contenzioso al quale il Memorandum di Londra del 5 ottobre 1954 offrì una prima risoluzione, che fu la base per la sistemazione definitiva sancita dagli accordi di Osimo del 10 novembre 1975.
Al memorandum d’intesa del ’54 fece seguito una grande emigrazione. Nel quarto volume della sua opera Cognomi del Comune di Pirano e dell’Istria (Il Trillo, Pirano 2011), Marino Bonifacio riporta che:
"già tra il 1923 e il 1939 erano emigrate da Pirano 2284 persone più altre 932 nel 1940-44, con un totale di 3216 partenze, di cui il 29% dirette all’estero (perlopiù in USA e Argentina) e il 71% in Italia».
Altre 3851 persone hanno lasciato Pirano e le altre località del Comune tra il gennaio del 1952 e il novembre del 1955, stabilendosi a Trieste nell’89% dei casi,
"tra il 1951 e il 1961 Pirano ha mutato i nove decimi della sua popolazione […], e nel primo censimento iugoslavo del 1961, su 5452 abitanti presenti in città ben 4705 erano nati fuori da essa, cioè l’86%, di cui il 57% in Slovenia e il 23% nelle altre repubbliche iugoslave".
Il ricordo di questa Patria perduta è rievocato dalla poetessa Annamaria Muiesan Gaspàri, nativa di Pirano, nel suo libro Piédeghe fonde. Sulle tracce dei giorni nostri, una raccolta di poesie in dialetto piranese pubblicata nel 1989 dall’editore triestino Lint.
Esule istriana e discendente di uno dei più antichi casati di Pirano, Annamaria Muiesan Gaspàri ha composto questa silloge di versi condensando in essa tutto un mondo di ricordi, nostalgie ed emozioni che ha scelto di trasmettere nella parlata della sua città d’origine, quella lingua madre che è l’idioma degli affetti, del focolare domestico e della quotidianità.
Il piranese è una lingua conservativa che ha mantenuto dei vocaboli che nel resto dell’Istria sono stati dimenticati, ciononostante questa favella è in gran parte comprensibile anche ai veneziani, come pure ai padovani e agli abitanti della sponda occidentale del Mar Adriatico.
Piédeghe fonde significa “orme profonde” e queste poesie sono tutte dedicate a Pirano, la Patria abbandonata con l’esodo, tra i versi di Sangiorgio la poetessa rivolge una supplica al patrono di Pirano:
"sisti Sangiorgio la to ṣénte
lontàn de la so casa,
de la so tèra
che l’à vista nàssi."
Ed Esuli si intitola un altro componimento che trasmette tutta la drammaticità della condizione di chi ha dovuto abbandonare ogni cosa, con un richiamo agli infoibamenti e agli episodi di violenza del 1943.
"A la lónga duti o squasi
g’à tocàdo vignî via
de la nostra tèra"
Vi sono poesie di carattere più intimistico e strettamente autobiografico che traspongono ricordi personali, in cui però, almeno in alcuni frangenti, i lettori più anziani possono facilmente riconoscersi: I recìni de Anita, cioè i suoi orecchini, sono le ciliege, le Sariéṣe rosse con cui una volta i bambini giocavano picandosele su le rece. Chissà se le nuove generazioni riescono ancora a emozionarsi leggendo delle casette del presepe ritagliate con il traforo e degli specchietti usati come laghi, citati in Viṣìlia de Nadal.
Da queste pagine trasuda la venezianità dell’Adriatico orientale; nella poesia Casa mia, ad esempio, la scrittrice racchiude alcuni frammenti della sua infanzia inquieta e accenna al babau, un demonietto notturno, ma babai nella Serenissima erano chiamati anche gli Inquisitori di Stato, una commissione speciale che si occupava dei crimini contro le personalità dello Stato e che agiva sotto la completa responsabilità politica del Consiglio dei Dieci.
Un’altra lirica racconta dei pescatori chioggiotti che attraversavano il mare con i bragozzi dai colori sgargianti, per vendere i loro prodotti agricoli e artigianali,
"sbrissàndo
sóra le onde ciare;
négri e ridacióni"
È giusto ricordare che sotto il governo dei veneziani non esisteva il concetto moderno di nazione, e i nazionalismi contrapposti (che sono all’origine delle tragedie più tremende del Novecento) dovevano ancora sorgere. Questi versi, contraddistinti dalla musicalità del piranese, sono spontani e genuini, talvolta ingenui, come gli scorci di fanciullezza serena che ritraggono; a tratti ricordano alcune poesie del trevigiano Francesco Dall’Ongaro (1808-1873), un combattente del Risorgimento profondamente legato alla Dalmazia, all’Istria e all’eredità storico-culturale veneziana.
La sensibilità dell’autrice la porta ad attribuire un profondo valore emotivo alle gioie semplici e nella dimensione della sua memoria si sovrappongono due piani: quello di un tempo differente da "’sta època rovèrsa" (Se vegnarò) e quello dell’età dell’infanzia, legata a "Incanti e fantasìe/ de un tenpo ch’ò vivésto/ o forsi/ solo imaginado" (Voléssi).
Annamaria Muiesan Gaspàri usa la sua arte come strumento per ritrovare dentro di sé le orme profonde e indelebili di ciò che è scomparso: "vòjo sercâ ’l mio tenpo" scrive in Se vegnarò, "trovâ memorie e lióghi/ lontani del bacàm" del presente, luoghi distanti dal turismo stagionale.
Piédeghe fonde è una bella raccolta, che rivela il dolore di un’esistenza sconvolta dai cambiamenti storici e la tristezza di sentirsi quasi estranei nella propria terra, queste poesie vengono da un cuore sofferente, che cerca di dar voce alle antiche contrade "fidéli custòdi/ del vècio spirito nostràm".
Il libro è decorato con i suggestivi disegni dell’artista Guido La Pasquala, che somigliano a delle eleganti incisioni ottocentesche e rendono il testo ancor più gradevole.
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