Poesia come un albero
- Autore: Margherita Guidacci
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2010
Vorrei con questo articolo rendere omaggio a una poetessa ingiustamente dimenticata, Margherita Guidacci (Firenze,1921 - Roma,1992), presenza appartata e coerente nella letteratura del nostro ’900. Profondamente religiosa, ma di una fede interrogante e non bigotta, capace di indagare senza fariseismi il mistero della morte, della grazia e della resurrezione, già da giovane iniziò a interessarsi di poesia, traducendo John Donne, Eliot e Emily Dickinson, a cui si sentiva accomunata da una stessa profonda sensibilità spirituale. Il suo primo volume, “La sabbia e l’angelo” del ’46, esprimeva in senso severamente oracolare una consapevole dipendenza dal versetto biblico, orizzontalmente disteso in lunghezza:
“Chi grida sull’alto spartiacque è udito da entrambe le valli. / Perciò la voce dei poeti intendono i viventi e i morti”.
Altri titoli successivi rivelano un uguale interesse per temi tratti dal Nuovo e Vecchio Testamento: “Morte del ricco”, “Giorno dei Santi”, “Promessa di Adamo”, “Ismaele”, “Caino e Abele”, “Poiché tu sei eterno”. A volte ricalcavano la forma dell’oratorio medievale, altre volte si facevano portavoce di un sentimento di fede ingenuo e corale.
Ma l’orizzonte della poesia di Margherita Guidacci non fu limitato esclusivamente alla meditazione religiosa. Molti suoi versi sono dedicati agli amici e agli affetti familiari, all’amore per il marito e per i tre figli, come questi scritti per la terzogenita Elisa:
“Che dirti, amore mio, che dirti? / Le parole hanno un senso / Soltanto se le nutre la memoria. / Ma tu non hai ricordo di stagioni, / Tanto meno ricordo di ricordi: / Sei nuova e fresca, intatta dal declino / Che rattrista lo sguardo di tua madre / Mentre fissi serena / Questo tuo primo autunno”.
Né le era estranea la corda dell’impegno politico e civile, che manifestò in alcune intense composizioni dedicate alla guerra, allo sfruttamento del proletariato, alla morte di Allende, alla strage della stazione di Bologna del 1980. Della sua poesia, che aveva radici abbarbicate nel terreno ma poi si slanciava verso l’alto con rami e foglie (l’antologia che si trova ancora in commercio, curata da Giovanna Fozzer, si intitola appropriatamente “Poesia come un albero”), lei stessa scrisse:
“Io cercavo una conoscenza, e quindi uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza e a trasmettersi con chiarezza”.
E ancora:
“Meglio scrivere un libro importante nel deserto / … che diventare celebre per equivoco;
Mio Dio, salvami dalla parola condotta in parata come un vitello nel giorno di fiera…”.
Un’istanza etica fortissima, quindi, animava la scrittura di Margherita Guidacci, forse proprio per il suo terso rigore così raramente compresa.
Negli anni ’60 la poetessa soffrì di una profonda crisi psicofisica e spirituale, che la portò ad essere ricoverata in una clinica neurologica: da questa dolorosa esperienza nacquero i versi tormentati di “Neurosuite”, in cui le immagini della natura assumono un aspetto deturpato e minaccioso, sullo sfondo angosciante del silenzio di Dio e del mondo circostante:
“Questo nodo di pietra, questa città murata! / La medesima ansia fa cercare una porta / a chi è dentro, a chi è fuori. / Ma se appena potessero vedere / di là dal muro, pregherebbero forse, / gli uni e gli altri, di non trovarla mai”.
Il ritorno alla vita e alla salute fu celebrato anni dopo nelle pagine di “Inno alla gioia”, in cui l’amore ritrovato, insieme alla pienezza di una felicità riconquistata, viene così salutato:
“Il nostro è amore d’anima. / E noi siamo più grandi / di tutto quello che ci può accadere”.
La poesia come ricerca e scavo interiore si è rivelata quindi per Margherita Guidacci anche un fondamentale esercizio di catarsi, di sfrondamento dell’inessenziale per recuperare la parte più vera di sé:
“Non ho scelto di essere poeta. Lo sono stata perché tale è la mia natura (…). La poesia non è un atto di volontà, è un atto di vita, e come la vita, contiene in sé motivazione e gioia sufficienti”.
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