Polaroid Stories di Wim Wenders

“Questa ‘cultura selfie’ sta portando a un imbarbarimento. Quello che un tempo era un privilegio – beh, spesso anche un sacrilegio – si è deteriorato fino a diventare un atto narcisistico irriflessivo e il brutale ‘diritto a una foto con questo tizio (o tizia)’. Il mondo, un tempo oggetto di curiosità e nostalgia, adesso è secondario, puoi voltargli le spalle. Mentre il sé fa di sé stesso la principale attrazione. Questo è esattamente lo tsunami culturale con il quale l’era digitale ci ha spazzati via: perdita di realtà, del mondo, del tessuto sociale e della responsabilità”.

Così Wim Wenders alle pagine 311-312 del suo “Polaroid Stories” (Jaca Book, 2017), superlativo contraltare all’ottundimento visivo post-Duemila (la realtà striminzita attraverso i focus degli smartphone). È un libro enorme, di formato e caratura. Per quanto detto sopra può anche dirsi un libro politico: 403 scatti di polaroid e sedimenti di storie da un altro mondo a corredo. Frame del tempo prima, immagini vecchie almeno quarant’anni, location, spianate sul nulla, skyline aeree e metropolitane, colazioni, facce di amici, interni di alberghi, agglomerati di nuvole in cieli a perdere, vecchi cinema, autoritratti su pellicola, televisori, l’America in bianco e nero, e poi a colori. Sulla strada, tra un viaggio e l’altro, tra un film e l’altro, dai Settanta agli Ottanta. Gli anni di Prima del calcio di rigore, Alice nelle città, Falso movimento, Nel corso del tempo, L’amico americano. Di Paris Texas che è un film fatto di luce e pura magia. L’atto di (saper) vedere restituito alla sua necessità, in accezione pura, e dunque abbacinante in quanto privo di simulacri sovrastrutturali.

Un volume al tempo stesso pubblico e privato, sul cinema e sulla vita che si rincorrono - si ritrovano - nello sguardo poetico e inindulgente di Wim Wenders. Regista (più ancora, artista) tra i più acuminati e visionari delle scene mondiali.