Racconto
- Autore: Nadia Agustoni
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2016
L’impressione che rimane dopo aver letto “Racconto” di Nadia Agustoni (1964), è quella di una sofferenza sospesa, diluita nella coscienza e nella memoria: un dolore distillato, evaporato, come suggerisce Maria Grazia Calandrone nella quarta di copertina. Non per questo meno coinvolgente, e perturbante. L’estraneità al mondo è in qualche modo conclamata dal titolo della prima sezione del volume, “esistono storie in cui sono straniera”, e ribadita ideologicamente quasi come scelta esistenziale: una vita ai margini, volutamente incapace di opporsi, di soverchiare
“nessuna promessa di vivere ma / un melo piccolo una / terra ai bordi della terra // nei verbi la distanza // a sera solo l’aria ricordava”
Solo l’aria, il cielo, la neve, la terra, gli alberi sembrano manifestare la loro solidarietà a chi scrive, con una netta predilezione per le stagioni fredde, per la campagna e l’acqua che vi scorre. Anche se le epigrafi sono tutte tratte da Melville (con l’esplicita formula di rifiuto bartlebiana), il mare c’entra poco in questa scrittura:
“nell’esilio degli alberi nel fragore dei secchi / o l’eleganza della volpe nel tracciato di neve / il bianco porta il silenzio l’ora scende ovunque / e resta uguale”.
Le povertà materiale, vissuta e patita nell’infanzia, viene raccontata con il sottile orgoglio di chi la riconosce come un segno distintivo di nobiltà d’animo, di affinamento spirituale, di empatia nella sofferenza:
“la nostra cena è un piatto di cenere”, “dobbiamo il cappotto all’inverno / rivoltarlo finché per vivere c’è solo offesa”, “una parola per stare lì coi maglioni infeltriti / il fumo in cucina”.
L’elenco di mancanze e privazioni diventa affermazione di uno stato di grazia, che marca una differenza tra vittima e carnefice, là dove chi vince davvero è proprio la vittima. E vince appunto attraverso il “Racconto”, l’uso delle parole che diventano giaculatorie salvifiche, litanie con cui ri-costruire la realtà: “costruiamo la casa i bicchieri le posate…”, nella memoria recuperata delle fiabe ascoltate da piccoli.
Infatti, “siamo le parole che sappiamo”, si intitola un’altra sezione del libro, siamo “quell’altrove delle parole o le immagini», «perché nulla resiste se non lo pronunci”: solo nel racconto ci salviamo, individualmente e come collettività. Solo nel racconto possiamo recuperare un’assenza, un amore che non c’è più, il rapporto con la natura. La magia definitoria delle parole riesce a riscattare l’esistente dal male, offrendo una testimonianza della bellezza: “l’arancia è un nome rotondo / il mondo non è la risposta”.
E l’uso reiterato, insistito, straniante e graficamente deformato che Nadia Agustoni fa dei due punti (prima, dopo e nel mezzo di un verso) tende a promettere una spiegazione del taciuto e sottinteso, esemplificazione che poi non arriva, perché il significato rimane sospeso, criptico, da indovinare o reinventare.
“Non sappiamo nulla dell’amore / solo l’amore: non confondere / questa speranza:”
Parlarsi, raccontare, recuperarsi attraverso la parola:
“non c’era un’altra vita una storia / per diventare un altro / ma una parola”.
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