Ricordi di guerra alpina
- Autore: Non disponibile
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2019
Tra tutti i fronti della Grande Guerra, nessuno era più “strano e sparpagliato di quello” italo-austriaco. È un dato oggettivo e acquisito, sul quale Marino Michieli si sofferma lucidamente in Ricordi di guerra alpina, un volume pubblicato a luglio 2019 dalle edizioni bassanesi Itinera Progetti (con un inserto al centro di 33 foto in bianconero, 367 pagine). È l’ultimo di una trilogia di cronache di montagna e di guerra, di soldati e muli, nelle Dolomiti, a cura dello scalatore veneto, appassionato di storia del primo conflitto mondiale nel Cadore. Il primo, Ricordi di guerra alpina 1915-1918. Fronte italiano, è uscito nel 2001, il secondo, l’ampio Ricordi di guerra alpina 2. I ricordi degli alpini della prima guerra mondiale è del 2008.
Come gli altri, si tratta di un’antologia di contributi monografici di giornalisti e di combattenti, in gran parte ufficiali o militari istruiti. Le testimonianze sono precedute da brevi “cappelli”, così li chiama, con la descrizione dei luoghi e degli eventi. A cent’anni di distanza, il racconto offre una versione viva e dal vivo di quanto avvenne nella guerra verticale sulle cime.
Anche in questo caso, Michieli ha scelto di raggruppare gli episodi in ordine geografico e non cronologico, cominciando dal Monte Cauriol, nella catena del Lagorai e risalendo verso la Marmolada, lungo le valli di Fiemme di Fassa fino all’Ampezzano e alle estremità occidentali della Carnia.
Nel maggio 1915, allo scoppio delle ostilità tra Italia e Austria, la linea del fronte lungo il confine tra i due Stati segnava una grande “S” coricata, dallo Stelvio all’Adriatico, a pochi chilometri da Trieste. Restò invariata fino al novembre 1917, partendo dal Pizzo Garibaldi, il crostone elevato a 2841 metri sul mare, sopra il passo delle Valli Retiche, dove s’incontravano i territori nazionali di Svizzera, Regno d’Italia, Impero austro-ungarico. Seguendo il limite delle creste più alte del Tirolo fino alle montagne del bresciano rappresentava il fronte più elevato di tutto il conflitto mondiale.
Dall’Ortles, le linee di contatto tra i due eserciti contrapposti salivano e scendevano, curvando con volte infinite fino al mare, per un totale di 650 chilometri, solo 50 dei quali pianeggianti o segnati da rilievi più modesti (comunque difesi alla morte). Seicento erano quindi di fronte montano e vi si combatteva in modo diverso, particolare.
La guerra alpina – che per quanto possa sembrare illogico vide impegnati anche bersaglieri e fanti, truppe non specializzate – era del tutto inedita e richiese anni di esperienza dolorosa e di errori, prima che si potessero comprendere le condotte più efficaci e adottare gli equipaggiamenti più adatti. Le une vennero tentate e scartate, non senza cocciute insistenze. Gli altri restarono poco più che allo stato sperimentale e comunque distribuiti in dotazioni ridotte, considerata le difficoltà logistiche.
Quello ch’è certo, è che gli studi dello Stato Maggiore tedesco avevano giudicato il fronte alpino italiano inadatto a importanti sviluppi tattici, dal momento che la conformazione dei luoghi avrebbe favorito una risoluta difesa, svantaggiando grandi azioni offensive e rendendole improduttive, anche in caso di successo. Ciò nonostante, l’andamento delle operazioni vide le truppe italiane costantemente all’offensiva, contenuta e rintuzzata da pronti ritorni controffensivi del nemico.
In sintesi impietosa: tre anni e mezzo di sacrifici inutili, che non ebbero alcun peso sulle sorti della guerra. Si pensi alle nostre pagine del capitano Arnaldo Berni, alla testa del presidio arrampicato sulla cresta del San Matteo. Assalti e contrassalti sulla quota più elevata di tutta la guerra, a 3678 metri, nell’alta Valtellina. Morti del tutto ininfluenti, ma non per questo meno onorevoli, quelle del giovane ufficiale degli alpini, dei suoi uomini e degli avversari.
Non si dimentichi, come l’autore tiene giustamente a ricordare, che italiani e austriaci dovettero affrontare lassù un ulteriore nemico: le forze della natura. Il freddo, le valanghe, la verticalità scoscesa dei luoghi hanno preteso tributi ancora più pesanti delle pallottole e dei combattimenti più accaniti.
Due esempi: il 13 dicembre 1916, l’accampamento austriaco del Grand Poz sulla Marmolada venne travolto da una massa di neve e ghiaccio. Dei quasi 600 sepolti, oltre la metà non sopravvissero. Sempre in zona, gli italiani persero 200 combattenti, nelle baracche sommerse da una slavina in alta Val Pettorina.
Si contano in 10mila uomini le perdite complessive dei due eserciti per le eccezionali nevicate, soprattutto dell’inverno 1916-17. Si posavano su lastre ghiacciate di nevi precedenti, senza aderire al manto preesistente e collassavano a valle.
Michieli sottolinea i contributi antologici che illustrano altri due aspetti della Guerra Bianca sul fronte alpino. Uno è lo scavo di chilometri di gallerie all’interno di montagne e ghiacciai, nell’una e l’altra linea, per assicurare rifornimenti, piazzare posti di osservazione, pezzi d’artiglieria e mitragliatrici. L’altro è la “guerra di mine”, che insanguinò il fronte montano e cambiò l’orografia di vette e rilievi, demoliti dagli esplosivi piazzati in camere di scoppio scavate nella roccia viva e fatti brillare sotto le postazioni tenute dal nemico, altrimenti imprendibili.
I primati: 20 giugno 1916, anticima del Piccolo Lagazuoi, nelle Dolomiti, mina italiana, carica di 32.660 kg. 13 marzo 1918, mina austriaca di ben 50mila kg sotto il Dente italiano del Pasubio.
Le perdite non erano ingenti, perché ci si aspettava la deflagrazione e perivano solo le vedette. Risultati? Neanche un’ora di guerra in più o in meno.
Ricordi di guerra alpina. Cronache di montagna e di guerra, di uomini e di muli, di alpinisti e soldati dal fronte dolomitico
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