Le Quartine, “Rubaiyyàt”, del persiano Omar Khayyàm (XII secolo), nato e morto a Nisabùr nell’attuale Iran, fanno parte del patrimonio mondiale della grande letteratura. Sono giunte a noi occidentali con grande ritardo, nella metà dell’Ottocento, prima tradotte in francese, poi in inglese. Secondo la tradizione islamica, il primo verso delle quartine rima con il secondo e il quarto, producendo una musicalità fascinosa.
La prima traduzione in italiano, direttamente dal persiano, senza passare dalla mediazione, e interpretazione, del francese Nicolas e dell’inglese Fitgzerald si deve a Francesco Gabrieli, uno dei massimi studiosi della cultura mediorientale. Gabrieli conosceva il persiano, l’arabo e il turco. Il suo testo, 307 quartine di Omar Khayyàm, è stato pubblicato dai “Grandi Tascabili Newton” (pp. 119, 1991) ed ha contribuito a far conoscere il poeta esotico al grande pubblico, fuori dai ristretti gruppi specialistici universitari.
Khayyàm era molto amato da Giovanni Pascoli (che lo lesse nella versione inglese di Eward Fitzgerald) per la sua comprensione del dolore, compassione della condizione umana, consapevole fino allo spasimo della brevità e vanità della vita. Tale poetica avvicina il poeta persiano all’Ecclesiaste, ancor più che a Lucrezio, dichiaratamente ateo e materialista.
Khayyàm è stato uno scienziato prima che poeta. Astronomo, matematico, filosofo, di lui resta un pregevolissimo testo di algebra. Risolse le equazioni di secondo grado. A lui si deve la riforma del calendario, voluta dal sultano Malikshàh, base del calendario giuliano, anche più precisa di quest’ultimo nel calcolo della durata dell’anno.
Pacifico ed eremitico, povero, mistico, Khayyàm è stato però un ribelle, lontano da ogni dogma, da moschee e sinagoghe e riti, da lui dichiarati inutili. Ha esaltato la felicità dell’attimo fuggente, la rosa, l’amore, la donna, i ragazzi, la giovinezza, il vino usato non come strumento di ebbrezza per realizzare la fusione con Dio ma innanzi tutto per dimenticare le asperità esistenziali:
"Giacché il mio venire al mondo, il primo giorno, non è dipeso da me, / e il forzato andarmene è una fissa decisione (superna), / sorgi, e succingiti, o svelto coppiere, / che’ io vo’ placar col vino la cura del mondo.”
C’è inoltre nei suoi versi un significato esoterico del bere, è la perdita dell’ego, il cui superamento è una condizione necessaria in ogni cammino spirituale.
Ma occorre consapevolezza perché ciò avvenga, il bevitore senza conoscenza non compie un gesto iniziatico. Chi vuole conservare sé stesso si perderà, recita anche Gesù (Mt 16, 24-27), in quanto in genere, nella vita materialistica, l’ego si contrappone agli altri, sentendoli rivali e nemici: homo homini lupus, l’uomo è un lupo per l’uomo. L’etica del poeta è identica a quella cristiana e buddhista, realizzata riempiendo e vuotando la coppa:
Sai tu perché io adoro il vino? / Per non adorar me stesso, come fai tu.
Vediamo lo stile graffiante di Omar.
“[…] il ber vino degli iniziati è cosa di cui io rispondo.”
Anche nel Simposio di Platone i convenuti bevono fino all’ebbrezza.
Khayyàm è capace di polemizzare con Dio sulla conduzione del destino, sa essere blasfemo, in apparenza:
“Tu bevi il sangue della gente, noi quello della vite; / sii giusto, chi è più bevitore di sangue tra noi?”
Ma chiede perdono; il perdono, scrive, è dato solo al peccatore. E nel progetto divino, la morte genera vita:
“Siedi sulla verzura, o bella, ché non starà molto / che la verzura spunterà dalla polvere mia e tua!"
Troviamo la medesima riflessione ne L’Ulisse di James Joyce, quando durante il funerale dell’amico, Leopold Bloom pensa che i nostri corpi sotterrati nutriranno gli alberi dell’orto accanto al cimitero.
La visione della predeterminazione è ferrea; in ciò l’artista si rivela "muslim", il sottomesso al Supremo, l’Uno incomprensibile dalla ragione:
"Ben prima d’ora è stato scritto ogni futuro evento. / Di continuo il Càlamo (superno) registra senza posa il Bene e il Male. / Ab aeterno Iddio stabilì tutto ciò che occorreva / l’affannarci e lo sforzarci nostro è invano.”
L’accettazione si accompagna paradossalmente al rifiuto dell’obbedienza:
"Benché io non abbia mai infilato la gemma dell’obbedienza a Te, / benché io mai abbia deterso dal volto la polvere del peccato, / con tutto ciò non dispero della generosità Tua, / poiché mai, l’Uno, io l’ho chiamato «Due».”
L’Uno senza un secondo, senza un "due" è la sua innocenza e purezza.
La sua simpatia per gli umili lo avvicina a Cristo:
"Se d’ora innanzi vuoi trovar riposo da questa tua vita, / non abbandonare gli umili un attimo solo.”
Poeta di grande fascino e profondità, tocca il cuore. Godere non è un peccato, tutt’altro, è compiere la volontà di Dio che ha creato il mondo. Godere però senza nuocere, senza mentire, senza calunniare, senza egoismo.
E se un “garzoncello” cristiano lo accetta, anche lui fa altrettanto, indipendentemente dal credo religioso.
"O bel garzone leggiadro, se tu sei Cristiano, / devi venire innanzi a noi senza paura. / O asciuga con la manica l’umido occhio mio, / o premi sull’asciutto mio labbro l’umido labbro tuo.”
“[…]La bella leggiadra per un breve istante ci allieta dei suoi vezzi.”
“[…] nella corte del Mistero / un atomo di anelito a Dio val più di cent’anni di preghiere.”
Potesse l’umanità evolvere, superare l’odio tra le genti anche attraverso gli insegnamenti di un grande scienziato e grande artista.
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