Sguardo in Bosnia
- Autore: Matija Mažuranić
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2003
Nella prima metà dell’Ottocento, per gli europei, la Bosnia era ancora una terra semisconosciuta e selvaggia. In Croazia anche i dotti sapevano poco di quel territorio così vicino eppure così isolato, tuttavia è proprio un artigiano croato, Matija Mažuranić (1817-1881), a lasciarci una significativa testimonianza sulla Bosnia con l’opuscolo Sguardo in Bosnia (1842) (Argo, 2003), cioè il suo resoconto del viaggio che intraprese in quella regione tra il 1839 e il 1840.
Nella premessa all’edizione italiana di Sguardo in Bosnia pubblicata da Argo e da lui curata, lo studioso Cristiano Diddi spiega che la conformazione geografica e la situazione politica della Bosnia, congiuntamente alla religione e alle tradizioni islamiche di una parte dei suoi abitanti, la rendevano un tempo "una sorta di Oriente misterioso" e ammantato di leggende, ma restava pur sempre un "Oriente domestico".
Quella di Mažuranić fu una vera e propria avventura. Egli disponeva di mappe, ma non gli furono sempre d’aiuto, poiché approssimative riguardo le strade e i sentieri. Tornano in mente alcune parole riguardo i Balcani dello scrittore irlandese Bram Stocker (1847-1912) in Dracula (1897):
"Non sono riuscito a scovare né una carta né un testo che mi dessero l’esatta localizzazione del Castello del Conte Dracula; le mappe di quel paese non sono certo paragonabili a quelle del nostro Servizio Geografico di Stato".
Questa citazione (pur tenendo presenti le ampie distanze geografiche) non è nemmeno troppo fuori luogo, perché Mažuranić scrisse che anche in Bosnia tutti credevano all’esistenza di streghe, lupi mannari, vampiri e morti viventi.
In quest’opera lo scrittore croato mescola osservazioni folkloristiche e opinioni personali, ravviva il racconto con aneddoti e ironia. Spostarsi non era affatto confortevole: tra un centro abitato e l’altro si trovavano gli hani, ossia le locande per i viandanti, ma questi ricoveri erano talmente miserabili che gli ospiti, per sopravvivere al freddo, dovevano fare come i gatti e dormire coricati sulla cenere ancora calda.
Stando alle parole di Mažuranić, persino i bosniaci conoscevano poco il loro paese:
"Sarajevo è incredibilmente grande e nessun abitante ne conosce i confini, né l’ha visitata tutta. Fuori dalle strade principali, infatti, non si può circolare liberamente" afferma stupito, "né è consentito guardarsi attorno o addentrarsi a piedi nelle zone proibite".
Già queste sue costatazioni fanno intendere quanto fosse rigido il dominio imposto dai musulmani. Nel pascialato di Sarajevo erano in vigore leggi simili a quelle di altri paesi islamici:
"Chi non è maomettano deve pagare il tributo e ciò vale per chiunque si trovi in Bosnia, non importa se residente o no: persino il più libero dei francesi, se capita da quelle parti nel periodo della riscossione del tributo, deve pagarlo pure lui".
Tuttavia il dispotismo del pascià pare non avere limiti, costui "può requisire in ogni momento i beni di chicchessia e darli a chi più gli aggrada". Inoltre qualsiasi uomo poteva uccidere sua moglie o i suoi servi per ogni minima mancanza senza incorrere in alcuna condanna (in particolar modo se si trattava di cristiani). Quando uno straniero arrivava al cospetto di un dignitario (un beg, un aga o un kadì), infatti, i servitori di quel signore iniziavano a gridare che egli, in qualsiasi momento, aveva potere di vita o di morte su di loro.
I cristiani dovevano sopportare ogni angheria: i musulmani potevano ucciderli e rubargli le spose, oppure privarli di ogni loro proprietà e ridurli alla miseria.
I turchi, allora, chiamavano i cristiani di Bosnia “Valacchi”; ovviamente la concezione moderna della nazionalità non esisteva e l’appartenenza religiosa era un fattore fondamentale per stabilire la condizione civile e giuridica di un individuo:
"In Bosnia i cristiani non possono definirsi bosniaci: così si chiamano solo i maomettani, mentre i cristiani sono chiamati semplicemente ‘popolino’, o ‘valacchi’".
Mažuranić chiarisce però che in Bosnia persisteva un clima di odio reciproco generale: i turchi disprezzavano i musulmani convertiti e ritenevano giusto farli "vivere nel terrore", cosicché sapessero chi comandava, dal canto loro i convertiti ricambiavano questo sentimento e detestavano gli ottomani.
Comunque non correva buon sangue nemmeno tra cristiani cattolici e ortodossi, le cui condizioni erano piuttosto penose:
"Ai sudditi cristiani è proibito tener messa a Travnik, cioè dentro la città, mentre gli è permesso farlo fuori. Ai cristiani di fede romana serve la messa un frate (quando c’è), e lo fa in un edificio un po’ meno fatiscente degli altri che si trova sul monte; quelli di confessione greca, poiché non posseggono neppure un edificio, sono costretti a officiare sotto una tenda, cosa incomoda assai, dovendo ogni volta trasportare di qua e di là i sacri paramenti e la tenda stessa".
Come negli altri stati islamici, quindi, vi era un regime di (semi)tolleranza nei confronti dei cristiani, ma la tolleranza è cosa ben diversa dall’accettazione, tolleranza significava sopportare i cristiani spingendoli alla conversione, ma – come si è detto – nemmeno la conversione era sufficiente per farsi accettare dai turchi.
In sintesi solo la necessità di far fronte alle durezze della vita quotidiana favoriva la convivenza tra le diverse popolazioni, ma Mažuranić spiega che gli stessi turchi "ora vivono insieme come fratelli e un istante dopo studiano come torcersi il collo l’uno l’altro".
Nell’Ottocento l’impero turco appariva effettivamente marcio sino a tal punto: era uno stato disorganizzato e incapace di controllare le sue periferie, infestato da banditi e ribelli, un paese il cui impianto istituzionale si reggeva sulla corruzione e su un sistema clientelare in cui si faceva carriera eliminando subdolamente i propri avversari.
In questo libro l’autore dedica molte pagine soprattutto alla descrizione dei costumi turcheschi e – come si sarà capito – indugia nei giudizi più negativi, sbilanciandosi sino a perdere ogni parvenza di imparzialità. Annota ad esempio che i turchi non bevono vino poiché la loro religione glielo impedisce e commenta subito sarcastico:
"lo berrebbero volentieri se solo non temessero che Dio li faccia precipitare tutt’a un tratto in un abisso, dove comunque, aggiungo io, un giorno o l’altro finiranno lo stesso".
V’è addirittura chi ha supposto che Mažuranić fosse in realtà in missione per raccogliere notizie che sarebbero dovute servire per sobillare una rivolta, ma a tale riguardo non si ha alcuna certezza.
Comunque sia egli dipinge i turchi come uomini molto orgogliosi, ma barbari e superstiziosi (il croato riporta che rispettavano i pidocchi perché li credevano la reincarnazione dei defunti).
L’aspetto più rilevante è la distanza che separava la civiltà dell’epica orale dalla cultura “scritta” degli europei:
"[gli islamici] Raccontano che i giaurri [ossia gli infedeli, cioè i cristiani] hanno libri di tutto il mondo dove sono registrati gli avvenimenti e le date […]. Alcuni si domandano: “Che Iddio li fulmini! E perché mai?” Ma altri spiegano: “Beh, vogliono semplicemente che si sappia. È un po’ come quando noi prendiamo la gusla e cantiamo di quando facemmo strage di valacchi [ossia di cristiani bosniaci] e di come le teste loro saltavano via come cavoli”."
Una differenza di orizzonti culturali che è sicuramente affascinante, ma anche rivelatrice di quanto fosse grande l’arretratezza della penisola balcanica a causa del malgoverno ottomano.
Sguardo in Bosnia è un testo breve, ma molto interessante, che racchiude il punto di vista di un croato sulla Bosnia al tempo in cui essa era ancora parte della “Turchia europea”. È uno sguardo impietoso, ma il racconto è colorito e scritto con una freschezza che ci restituisce inalterato quel senso di stupore che devono aver provato i suoi primi lettori.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Sguardo in Bosnia
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