Sine sole sileo
- Autore: Nadia Semeja
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2006
La ginestra è il fiore dalla sobria e spoglia beltà che predilige i luoghi desolati e i pendii scoscesi e solitari. La ricordiamo così, questa pianta dalle radici tenaci e ardite, sull’onda degli immortali versi che Leopardi le dedicò poco prima di morire (La ginestra), durante il suo soggiorno a Napoli, nel 1837, ispirato da una passeggiata meditativa alle pendici del Vesuvio, in un paesaggio devastato dalla lava e dal fuoco. La poetessa e scrittrice triestina Nadia Semeja colora i primi versi della sua silloge Sine sole sileo (Libroitaliano, 2006) con l’oro discreto di questo fiore, dotandolo della facoltà di alimentare la fiamma della vita:
"In te, semplice ginestra, / saluto il sole della vita / che risveglia nel mio cuore / il seme antico della forza / che, più forte del dolore, / apre i petali dell’amore".
Quel “profumo che il deserto consola”, odorato dal poeta recanatese nel suo inno all’inconsapevole eroismo della ginestra che sa piegarsi alle implacabili forze della natura matrigna senza i lamenti e le superbie umane, si effonde dai versi di Semeja. L’intera silloge (Libroitaliano, 2006) è una sinfonia di colori, impressioni, esperienze, passioni, sentimenti e intuizioni magicamente sottili, dedicata alla vita e alla natura nel loro comune destino di morte e di vita, di tenebra e di luce, di caduta e di rinascita, in un’oscillazione continua di chiaroscuri che evocano i cicli delle stagioni e l’alternarsi dei giorni e delle notti.
Una potenza vitale e una pienezza traboccante del sentire scorrono sotterranee nella trama dei versi e ora traboccano come fiumi al disgelo, trascinati dall’impetuosa giovinezza della primavera, ora si inabissano nella terra gelata dell’inverno interiore, quando la luce si indebolisce e la natura tutta si addormenta in un sonno pesante e carico di malinconia.
Il titolo stesso della raccolta, Sine sole sileo (“Senza il sole taccio”), è epigrafe ideale di questa percezione ciclica del tempo e del legame inscindibile tra l’anima della poetessa e la natura, entrambe legate nei loro ritmi vitali al salire o al diradarsi della luce.
È un’esperienza universale quella descritta da Semeja attraverso il suo canto: sempre uomini e donne, in passato più che nei nostri tempi di inquinamento luminoso, hanno vissuto in modo drammatico il “dissanguamento” del sole e la sua “morte” alla fine del giorno e durante l’inverno. Un senso di sgomento e di terrore coglie l’anima in quell’impercettibile attimo in cui la luce diurna inizia a scemare e il sole a scendere nelle case della notte. Le parole muoiono, un silenzio mortale si stende come una nebbia avversa sui cuori intirizziti. Anche la natura freme di spavento al soffio mortale della tenebra, per riaprirsi alla speranza e alla forza con il primo raggio dell’aurora, allorché il sole, vinta la sua ennesima battaglia con il caos, ritorna sulla terra. Rugiada di parole fresche e gioiose affiorano allora alle labbra della poetessa che sa cantare il ritorno della vita, della luce, della speranza e dell’amore con la stessa autentica intensità e passione con cui ha attraversato i sentieri dello smarrimento e del buio.
Ma il sole di Semeja è anche metaforico, è il sole del cuore che ama la vita in tutte le sue manifestazioni e non esita a donarsi alle possibilità di ogni nuovo giorno, con slancio e amore:
"Alzarsi al mattino col canto in gola / spiccare il volo con ali di luce / ed abbracciare il sole che sorge" (Stupido giorno)
Con il mattino si risveglia sempre la forza di lottare, di cercare l’equilibrio impervio dell’“altalena di bene e male” che gioca con i nostri giorni brevi e sempre minacciati. E anche se un "sapore d’amaro, brucia la gola", la ruota della vita non può fermarsi e procede il suo corso, fatalmente, meravigliosamente:
"Le inutili ali, lavate stirate, / ammiccano e attendono il nuovo domani" (Stupido giorno)
Questa alternanza di prostrazione e di recupero repentino della volontà di vivere attraversa tutta la raccolta, ispirando metafore e allusioni originali e sferzanti:
"Che importa poi se il miele / sarà di nuovo sale? / I petali cadranno / con il morir del giorno / ma l’alba è già in attesa / con un fiore sempre in boccio" (Uno scheletro nell’armadio).
I sussulti del cuore, l’amore che riavvolge i teli sbiaditi del tempo ordinario e li tinteggia in colori intrisi di sole e di mare dispiegandoli in arazzi magnifici di nuovi orizzonti, la festa dei sensi baciati dall’estate e dalla natura in rigoglio esplodono a tratti nel giubilo di una danza infinita:
"Fuggirò, strapperò, calpesterò, / e imboccherò la strada di luce / che prepotente qui mi riporta / dove una piccola spiga di grano / aspetta me per maturare, / dove colui che non sa stare solo / d’amore riempie un soffice nido" (E…)
E il richiamo della vita è sempre così forte da vincere ogni sconfitta, superando ogni ostacolo, volando oltre le paludi della delusione e della disfatta, con il coraggio dell’aquila che conosce la dignità regale del volo alto e solitario quando viene l’ora del silenzio e del “no”, della negazione e dell’assenza:
"Ritornerò domani e tu non ci sarai. / Camminerò volando su un prato di allegria / rincorrerò i sogni per farne realtà. / Libera in un mondo nuovo e tu non ci sarai" (Ritornerò)
Il legame di Semeja con la natura, così come è cantato nei suoi versi, riporta in vita l’antico magico cerchio in cui poeti, vati e aedi danzarono cantando stagioni, sorgenti, montagne, boschi sacri, mari, laghi, popolandoli di divinità e di spiriti sapienti. Oggi l’uomo ha perso questa sintonia con le potenze elementari della vita, quell’intuizione profonda dell’anima in dialogo con le “divinità” protettrici delle selve e dei prati, delle radure e dei fiori. Semeja sente e fa risuonare nel suo verso i fremiti di gioia e i singhiozzi straziati della natura, e in essa trova uno specchio in cui leggere e comprendere il proprio sentire. Il dolore della natura è il suo, il suo dolore è quello della natura, così come la gioia e il giubilo allorché l’anima ritrova la sua primavera dorata nei verdi giorni dell’estate interiore, là dove il tempo è sempre fanciullo e gioca immemore e leggero. Il paesaggio allora diventa simbolo di sentimenti, di emozioni, di esperienze, di ricordi e di suggestioni, offrendo con la varietà delle sue forme una tastiera infinita di immagini specchio, di emblemi psicologici scolpiti con vigore e passione.
Un senso panico della vita e della natura abbraccia tutte le cose in un’effusione calda e vibrante:
"Affondato le radici ho nel vento / spaziato ho con gli occhi della mente / cantato ho assieme all’erba del mio prato" (Oltre)
Il Carso, il mare, il cielo, le montagne, le piante, il vento, le stagioni, le rocce e il mare sono, nei versi di Semeja, sia natura amata, contemplata, respirata e trasformata in ossigeno corporeo e spirituale, sia volto segnato dall’intimo sussultare della vita interiore, nel bene e nel male, nella sofferenza e dell’esultanza.
"Sono arida terra in lotta col vento / che dura si stringe al bacio del gelo / si screpola tutta al morso del sole / […] Sono pietra sferzata da gelida pioggia / che abbraccia il ginepro irto di spine, / si veste di bianco nel timido prato / ed applaude il miracolo di quell’unico fiore. / Sono Carso che brucia e sprofonda nel mare" (Amare Trieste)
Così lo sfinimento, che spesso sgretola la volontà e la capacità di resistere alle bordate della vita, diventa "un vecchio albero / con i rami curvi per la stanchezza", "un gabbiano ferito / che la rena imprigionava e il mare tormentava", in un’identificazione lacerante con i fenomeni naturali che strazia e sfinisce, unendo lo smembramento del dio Dioniso alla ricomposizione in parola di questa stessa scissione sotto l’egida del dio Apollo, in uno scambio continuo tra sentimento ed evento naturale:
"Mi sono vista in una goccia di pioggia / che rigava la finestra del mio mondo. / Volevo asciugarla con le dita / mi sono scottata il cuore" (Mi sono vista)
Il raggio del sole, l’astro amico e compagno delle ore radiose, brilla in filigrana in tutta l’opera, indorando la natura e il cuore, presenza assidua quando il paesaggio si veste della serenità e vitalità ritrovate:
"Allegra sale la marea / porta le chiacchiere del mare. / Il nodo stretto piano si scioglie / divento sasso che vento addolcisce / divento acqua che al cielo parla. / Il sole ride e ride il mio cuore / una vela nera scompare lontano. / M’inebria il forte profumo di mare / e so che saprò ricominciare" (Scogliera)
In un mondo desertificato e dominato dalla ragione e dalla tecnica – frutto, secondo la psicologia junghiana, di un’imposizione dell’animus, il maschile negativamente inteso, nella società e nel progresso della storia –, la poesia di Semeja è espressione dell’anima, del femminile, questo grembo materno in cui maturano forze nuove e viscerali che fecondano l’esistenza e il tempo umano con la magia dell’intuire e del sentire profondo, dell’affetto tenace che penetra le cose e vi accende un fuoco palpitante e novatore. L’anima canta in questa silloge e guizza tra le parole come un’acqua zampillante che alimenta la vita in un’epoca stanca di vivere. E non lo fa dispensando formule di ottimismo astratto o trionfali illusioni dell’ultima ora, ma con la maturità vissuta e decantata di un cuore saggiato e temprato nella prova e nell’amore, capace di soffrire, gioire e amare sul serio, non sull’onda breve dell’emozione effimera. Ne escono parole incise nella pietra, d’amore e di eternità, le grandi potenze che rendono la vita degna di essere vissuta:
"Là, dove il pianto pietra diventa / e un gelido soffio il cuore morde, / nel ghiaccio scolpito trovi il mio nome. / Là, dove più forte è la corrente / e ancor più cupo è il rombo del tuono, / se ascolti, il mio canto potrai sentire" (Dove)
SINE SOLE SILEO
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Sine sole sileo
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