Stanza di confine
- Autore: Ida Vallerugo
- Categoria: Poesia
“Stanza” è un sostantivo che ricorre spesso in questi versi di Ida Vallerugo, poetessa friulana (e il Friuli è terra di confine, segnata da ferite profonde, della storia e della natura). Stanza come interno, non solo fisico, materiale, di una casa in muratura: ma anche spazio protetto dell’anima (“e stanza mi faccio, silenzio”; “Ma non sono infinite le stanze del vivere./ Cosa farai in quella stanza lontana, senza porte, disanco-/rata?”), che l’autrice esplora con la sapienza antica di tutta la sua esistenza, e cultura, sedimentata nelle radici della sua famiglia e della sua gente, ma anche dilatata in luoghi e tempi più vasti, universali. Perciò il deittico “qui” con cui si apre il volume (“Qui ho vissuto”) non esclude l’apertura a un esterno altrettanto coinvolgente e imperioso, e il rimando continuo a un’ oscillazione tra dentro e fuori, presente e passato, individuazione e alterità. Le quattro sezioni in cui si articola il libro tracciano infatti un percorso da una “Terra di dentro” (il terreno sassoso e alluvionale chiamato Magredo, entro il cui perimetro la poetessa ha trascorso quasi tutta la vita) fino alla riscoperta di una Grecia mitica, sognata eppure concreta, attraverso una serie di viaggi mentali e fisici - alcuni in compagnia dell’amato padre - che portano l’autrice a lambire altri orizzonti, da Venezia (“E tu, Venezia, argonauta a riva...”) alla New York delle Torri Gemelle, da Gaza a Milano all’Acropoli, da Ostia alla Bolivia ad Amsterdam, da Stratford on Avon al Sudafrica: sempre sulle tracce di incontri rivelatori, arricchenti, con poeti e uomini comuni, rivoluzionari e artisti. L’ossatura franta e asciutta di queste poesie mantiene coerentemente alcuni stilemi in tutte le quattro parti in cui il libro è suddiviso. Le ripetizioni, ad esempio, talvolta a chiasmo, così frequenti a sottolineare una volontà ribadita di narrazione musicale, epicheggiante (“Ma gli occhi non cambiano,/ non cambiano gli occhi”; “Ma l’aria si divide, si divide l’aria?”; “Non ora, luna/ non ora”; “Chi cammina, chi cammina”; “la fiamma ardeva/ la fiamma ardeva”; “Siamo sogni, siamo sogni”; “Le stelle sideree, le sideree stelle”; “ L’onda, la prua; la prua, l’onda”). O le frequentissime interrogazioni, spesso retoriche, che l’autrice rivolge più a se stessa che al lettore. E ancora la predilezione per versi scanditi da tre punti fermi, a sezionare un elenco di nomi: “Il passo. Le pietre. Le acque lontane”; “Bianche. Accostate. Di ferro.”; “Gli acrobati. La tigre. Il poeta”; “Fiorita. Salda. Subito sparita”. Anche le conclusioni di molte poesie si distinguono per la scelta reiterata (che può ricordare l’Ungaretti di “Sentimento del tempo”) di evidenziare l’ultimo verso, staccandolo graficamente dal corpo della poesia, a ribadirne il tono asseverativo, definitorio: “Guarda un momento il mondo”; “E non è l’eternità”; “Ti torno al mare”; “E siamo ancora insieme”; “E volevo un canto”; “E in me ogni azzurro grida”. Nella prefazione, il poeta Pierluigi Cappello, amico corregionale dell’autrice (“è mio fratellastro, questo poeta,/ figli noi di donna trascurata”) parla a proposito dello stile di Ida Vallerugo di “paradossale complessità... straordinaria evidenza delle immagini... scrittura trasparente e oracolare insieme”; a lui fa eco nella postfazione la curatrice Anna De Simone, commentando “una poesia visionaria e teatralizzante... di ossimorica violenta dolcezza”. Un esempio di questo contrasto tra forza e tenerezza potrebbe forse risaltare emblematicamente nella poesia “Corridoi”, di cui riportiamo inizio e conclusione:
“In quanti corridoi ho camminato/ a luoghi di passaggio destinata./ E nei chiostri dei templi./ Ma cosa ci facevo lì se il dio era fuori, nei volti vostri?//...E insiste l’anima unghia col suo fare misterioso. Sì, forse anche di là c’è qualcuno a scalfire/ incessantemente. Tu, Assente?// E in corridoi di vetro ho camminato, i muri più duri.”
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